Appendice 5ª - Sul reale fondamento del rapporto intenzionale

Con il “rapporto intenzionale” caratterizzato nel capitolo terzo di questo libro (su Franz Brentano), nella psicologia di Brentano compare un elemento animico solo come fatto della coscienza abituale, senza che questo fatto sia ulteriormente integrato con spiegazioni nello sperimentare animico. Vorrei ora permettermi qui di presentare brevemente qualcosa in merito, che ha il suo fondamento in concezioni da me approfondite nelle più diverse direzioni. Queste concezioni esigono appunto di essere date anche in forma più estesa, con tutti i fondamenti. Tuttavia le circostanze mi hanno finora concesso di presentare solo qualche riferimento in conferenze. In una breve esposizione abbozzata voglio portare qui alcuni risultati, e prego il lettore di accoglierli per ora come sono. Non si tratta di “idee venute in mente”, ma di qualcosa i cui fondamenti sono stati da me cercati in un lavoro pluriennale con i mezzi scientifici del presente.

Nello sperimentare dell’anima che è definito da Franz Brentano giudicare, al semplice rappresentare, che consiste in un’interiore formazione di immagini, si aggiunge un accettare o rifiutare le immagini della rappresentazione. Sorge per l’indagatore dell’anima la domanda: attraverso che cosa nello sperimentare dell’anima si ha non semplicemente l’immagine rappresentativa: “albero verde”, ma il giudizio: “è un albero verde”? Questo “qualcosa” non può trovarsi all’interno del cerchio ristretto della vita di rappresentazione che si colloca nella coscienza abituale. Che non ve lo si possa trovare, ha portato ai pensieri gnoseologici che ho esposto nel secondo volume del mio “Gli enigmi della filosofia”, nel capitolo “Il mondo come illusione”. Si tratta qui di un’esperienza che si trova al di fuori del cerchio sopra ricordato. Quel che importa è trovare il “dove” nella sfera delle esperienze animiche.

Se l’uomo svolge un’attività percettiva di fronte a un oggetto sensibile, questo “qualcosa” non può trovarsi in tutto ciò che riceve nel processo percettivo, così che quel ricevere sia colto dalle rappresentazioni fisiologiche e psicologiche che si riferiscono da un lato all’oggetto esterno, e dall’altro direttamente al senso di cui si tratta. Se qualcuno ha la percezione visiva di un “albero verde”, il giudizio: “è un albero verde” non è rintracciabile nel rapporto fisiologico o psicologico indicabile direttamente tra “albero” e “occhio”. Ciò che è vissuto nell’anima come fatto interiore del giudicare è appunto ancora un rapporto tra “uomo” e “albero”, diverso da quello tra “albero” e “occhio”. Eppure solo l’ultimo rapporto è viene vissuto in piena lucidità nella coscienza abituale. L’altro rapporto resta in una sbiadita subcoscienza e viene alla luce solo nel risultato che si trova nel riconoscimento dell’“albero verde” come un qualcosa di esistente. In ogni percezione che culmini in un giudizio si ha a che fare con un doppio rapporto dell’uomo con l’oggettività.

Ci si fa un’idea di tale doppio rapporto solo sostituendo l’attuale frammentaria teoria dei sensi con una completa [cfr. in merito R. Steiner, “L’enigma dell’uomo, 0.0. n. 170, Ed. Antroposofìca, Milano 1973, a pag. 99 segg.; “Arte dell’educazione - l° Antropologia, 0.0. n. 293, Ed. Antroposofica, Milano 1982, soprattutto l’ottava conferenza; e per tutta l’impostazione data da Steiner al problema dei sensi si veda l’articolo di Hendrik Knobel a pag. 21 delle “Nachrichten der Rudolf Steiner-Nachlassverwaltung” n. 14, Michaeli 1965 - ndc]. Chi tenga conto di tutto ciò che va considerato per la caratterizzazione di un senso umano, trova che si deve chiamare “senso” qualcos’altro oltre quel che abitualmente così si definisce. Ciò che fa dell’“occhio” un “senso” è anche poi presente per esempio quando si vive il fatto: “un altro io viene osservato”, oppure “un pensiero umano di un altro viene riconosciuto come tale”. Nei confronti di tali fatti si fa di solito l’errore di non compiere una distinzione assolutamente giustificata e necessaria. Si crede per esempio che basti, quando si sentono le parole di un altro, parlare di “senso” solo in quanto si tratta solo dell’“udito”, e che tutto il resto sia da attribuire a un’attività interiore non sensibile. Ma le cose non stanno così.

Nell’udire parole umane, e nel capirle come pensieri, va considerata una triplice attività, e ogni parte di questa triplice attività va considerata a sé se si vuole arrivare ad una comprensione scientificamente giustificata. L’“udire” è una delle tre attività. Il solo “udire” è di per sé altrettanto poco un “senso del linguaggio”, quanto poco il “tastare” è un “vedere”. Come si deve distinguere adeguatamente tra il “tatto” e la “vista”, così si deve distinguere tra il senso dell’“udito”, quello del “linguaggio” e quello ulteriore del “cogliere pensieri”. Il non separare nettamente il “cogliere pensieri” dall’attività del pensare, e il non riconoscere il carattere sensoriale del primo porta a una psicologia imperfetta e pure ad un’imperfetta gnoseologia. Si cade in questo errore solo perché gli organi del senso del “linguaggio” e quello del “cogliere pensieri” non sono così percepibili esternamente come l’orecchio per l’“udito”. In realtà vi sono “organi” per entrambe le attività percettive, così come per l’“udito” vi è l’orecchio.

Applicando ciò che risulta da un esame completo della fisiologia e della psicologia a questo proposito, si giunge a una concezione sull’organizzazione umana dei sensi. Si deve distinguere: il senso per la “percezione dell’io” dell’altro uomo, il senso del pensiero, il senso del linguaggio, il senso dell’udito, il senso del calore, il senso della vista, il senso del gusto, il senso dell’olfatto, il senso dell’equilibrio (l’esperienza percettiva del trovarsi in una determinata condizione d’equilibrio nei confronti del mondo esterno), il senso del movimento (l’esperienza percettiva della quiete e del movimento dei propri arti da un lato, o del proprio esser fermi o muoversi rispetto al mondo esterno, dall’altro), il senso della vita (l’esperienza dello stato dell’organismo, del soggettivo sentirsi bene o male), il senso del tatto. Tutti questi “sensi” portano in sé le caratteristiche per le quali in verità si chiamano “sensi” l’“occhio” e 1’“orecchio”.

Chi non riconosce la legittimità di una simile distinzione, cade in confusione con la propria conoscenza nei confronti della realtà. Con le sue rappresentazioni incorre nel destino che esse non gli lascino sperimentare nessun elemento realmente veritiero. Per chi ad esempio chiama 1’“occhio” un “senso”, e non ammette un senso per il “linguaggio”, anche la rappresentazione che si fa dell’“occhio” resta non reale.

Sono dell’idea che Fritz Mauthner [1849-1923, scrittore e filosofo del linguaggio. In merito alla sua idea del “senso casuale” si veda il suo “Beiträge zu einer Kritik der Sprache”, vol. I “Sprache und Psychologie”, Stuttgart 1901, pagg. 320-374 - ndc] parli nelle sue opere di critica linguistica nel suo modo geniale di “sensi casuali” semplicemente perché ha presente solo una frammentaria teoria dei sensi. Se non fosse così noterebbe come il “senso” si ponga entro la “realtà”.

Quando si è di fronte a un oggetto sensibile, non si riceve mai un’impressione tramite un solo senso ma, oltre a questo, sempre tramite almeno un altro della serie dei sensi prima indicati. Il rapporto con un senso entra nella coscienza abituale con particolare nitidezza; l’altro resta più sbiadito. Sussiste però la differenza tra i sensi che in un certo numero fanno sperimentare il nesso col mondo esterno più come esterno, gli altri per i quali esso è qualcosa in più stretta connessione col proprio essere. I sensi che si trovano in connessione più stretta col proprio essere sono per esempio quelli dell’equilibrio, del movimento, della vita, e anche il senso del tatto. Nelle percezioni dei sensi più legati al mondo esterno sarà sempre sentito insieme ottusamente anche il proprio essere. Si può dire che sbiadisce il percepire cosciente, proprio perché la relazione verso il mondo esterno è sopraffatta dall’esperienza della propria esistenza. Se ad esempio capita che sia visto un oggetto, e allo stesso tempo il senso dell’equilibrio comunichi un’impressione, si percepisce in modo nitido quanto si è visto, e questo porta alla rappresentazione dell’oggetto. L’esperienza dovuta al senso dell’equilibrio resta sbiadita come percezione, eppure rivive nel giudizio: “il visto è”, oppure “esiste ciò che si è visto”.

Nella realtà le cose non stanno le une accanto alle altre in distinzioni astratte, ma si sovrappongono con le loro caratteristiche le une alle altre. Così avviene che nella serie completa dei “sensi” ve ne siano che comunicano meno il nesso col mondo esterno, ma più l’esperienza del proprio essere. Questi ultimi si immergono nella vita interiore dell’anima più che per esempio occhio e orecchio; per questo il risultato della loro comunicazione percettiva compare come esperienza interiore dell’anima. Ma si dovrebbe distinguere anche in essi il vero e proprio elemento animico da quello percettivo, così come ad esempio in quel che si vede si distingue il fatto esterno dalle relative esperienze interiori fatte dall’anima.

Chi si pone nella prospettiva antroposofica non può indietreggiare spaventato davanti alle sottili distinzioni fatte qui in merito alle rappresentazioni. Egli deve saper distinguere il senso del linguaggio da quello dell’udito da un lato, e dall’altro il senso del linguaggio dalla “comprensione delle parole” procurata dai propri pensieri, come la coscienza abituale distingue tra un albero e una massa rocciosa. Se si tenesse più conto di ciò si riconoscerebbe che l’antroposofia ha non solo l’aspetto che si definisce di solito mistico, ma anche l’altro, attraverso il quale essa non porta a una ricerca meno scientifica di quella delle scienze naturali, ma anzi a una maggiore scientificità che rende necessaria un’elaborazione della vita di rappresentazione più sottile e più metodica, persino dell’abituale filosofia. Credo che Wilhelm Dilthey [1833-1911; si veda in modo speciale il vol. V dei suoi “Gesammelte Schriften”, Stuttgart 1957 - ndc] con le sue ricerche filosofiche fosse sulla via verso la teoria dei sensi che ho qui abbozzato, ma che non poté giungere a una meta, perché non si spinse fino alla completa elaborazione delle relative rappresentazioni. (Si veda anche ciò che ho detto in proposito nel secondo volume del mio “Rätsel der Philosophie”, alle pagine 567-572) [“Die Rätsel der Philosophie” in italiano: “L’evoluzione della filosofia dai presocratici ai postkantiani” - ndc].