SUL PRIMATO CATTOLICO DI STERMINIO

Documenti storici dimostrano che il “Guinness World Record” dello sterminio appartiene alla chiesa cattolica. I crimini della chiesa cattolica rappresentano l’ortodossia cattolica e, grazie al consenso dei vari papi coinvolti e di tutti gli ordini ecclesiastici, esistono ancora documenti ufficiali, paradossalmente prodotti dalle stesse autorità ecclesiastiche cattoliche, che forniscono dettagliatissime prove storiche delle stragi compiute in nome di Dio. Per oltre cinque secoli i cattolici hanno imposto il proprio credo con la violenza, eliminando fisicamente ogni oppositore dai territori posti sotto la loro influenza politica.

Ciò nonostante, c’è sempre qualche credulone (ops, credente) che prova ancora ad operare una sorta di “revisionismo storico” per tentare di negare il crudele sterminio di milioni e milioni di persone, bruciate vive. Va detto invece che i misfatti di Hitler e di Stalin, a confronto con quelli dei cattolici, assomigliano alle marachelle di una educanda. Con l’avvento della “Santa inquisizione” sorse perfino qualcosa di più efferato dei roghi: furono i forni, usati da “los quemaderos” di Siviglia (gli incendiatori di Siviglia). I condannati al rogo erano talmente numerosi che i “quemaderos” furono costretti a inventarsi qualcosa di speciale che consumasse meno legna dei tradizionali autodafé: costruirono uno accanto all’altro quattro grandi forni circolari sopra una piattaforma di pietra, ognuno dei quali poteva contenere fino a quaranta condannati. Accendevano un po’ di legna sotto la piattaforma, facevano entrare gli infedeli nei forni e li cuocevano a fuoco lento, così che a costoro occorrevano dalle 20 alle 30 ore per morire. Questi forni funzionarono ininterrottamente per oltre tre secoli: 300 anni. Furono poi chiusi da Napoleone nel 1808. Questo è riuscito a fare la Santa Inquisizione, sublime spettacolo di perfezione sociale (come scrive Adriano Prosperi citando un numero di “La Civiltà Cattolica” del 1853) (http://cristianesimo.it/inquisizione.htm).

L’infernale persecuzione della vergognosa santissima inquisizione cattolica contro i dissidenti, eretici, apostati, streghe, durò cinque o sei secoli: dal 1200 al 1700. L’ultima strega, Caterina Medici fu bruciata viva il 4 marzo 1617: trasportata per Milano su un carro mentre il carnefice la torturava con tenaglie roventi, fu infine impiccata su un palco eretto per l’occasione e quindi bruciata (cfr. il Dizionario biografico Treccani).

Scrive Bacchiega, emerito docente alla Pontificia Università “Marianum” di Roma:

"È difficile stabilire il numero delle vittime perché gli storici moderni adottano una metodica rigorosa: vogliono i fascicoli processuali, le sentenze. Gli archivi, fonti indispensabili, o sono stati distrutti dalla chiesa stessa o dalle rivolte popolari contro gli inquisitori. Il concilio di Albi (1254) aveva stabilito di predisporre copie degli atti processuali e di riporli in luoghi sicuri. Cosicché per calcolare verosimilmente le vittime si dovette a volte ripiegare su metodi induttivi. Dal registro delle sentenze del solo Tribunale di Tolosa nel periodo 1308-1325, essendo inquisitore Bernardo Gui, le sentenze di condanna al rogo furono 636. A Carcasson i consoli della città nel 1285 ordinarono la distruzione dei registri delle sentenze. A Ginevra, nel solo anno 1513 furono accesi 500 roghi. In Germania, i tedeschi all’inizio si opposero con forza ai processi alle streghe, ma dopo la bolla contro le streghe di Innocenzo III e la pubblicazione del “Malleus Maleficarum” (1485) i processi divennero abituali. Per l’Italia si cita la relazione sulle persecuzioni e massacri del 1655 di Enea Balmas e Maria Lana (Ed. Claudiana). Dai dati frammentariamente raccolti induttivamente si parla di milioni di vittime. Hans Kung, noto teologo di successo, calcola circa nove milioni di vittime, più di quelle di Hitler e Stalin assieme” (Mario Bacchiega, “Concilio di Calcedonia (451). Chiesa lacerata e politeista”, Ed. Bastogi, Foggia 2013).

Sono onorato di conoscere come amico virtuale Mario Bacchiega (http://www.bacchiega.it/) in quanto è un uomo coraggioso capace di dire il vero. E sottolineo che sono miei amici solo coloro che sono capaci di vera libertà culturale. È il caso della studiosa Maria Enrica D’Agostini, emerita ordinario di Lingua e Letteratura tedesca presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Parma. Ci siamo conosciuti non solo virtualmente, dato che abitiamo entrambi nello stesso paese, e si occupa anche d’arte.

Anche questa studiosa ha il coraggio della verità e, recentemente alcuni suoi allievi hanno pubblicato un libro su di lei: “Pagine inedite di Maria Enrica D’Agostini e la voce di Elias Canetti”, Ed. Apostrofo, Cremona 2015. Anche in queste pagine si parla del “Malleus Maleficarum” (“martello delle streghe”, il malleus era il maglio per colpire ed abbattere eretici, streghe, liberi studiosi dei testi sacri, ecc.). Nel seguente breve saggio sulle streghe, Enrica D’Agostini non si limita ad accennare ai roghi della “Santa inquisizione” ma riflette sui motivi psicologici e sociologici di tali falò.

Maria Enrica D’Agostini
IL FANTASTICO E LE STREGHE

Fonte: “Pagine inedite di Maria Enrica D’Agostini e la voce di Elias Canetti”
A cura di Beatrice Sellinger e Monica Biasiolo
(Ed. Apostrofo, Cremona 2015)

Alla sfera del fantastico appartiene di diritto anche il tema “streghe” forse perché la strega rappresenta un “luogo” fisso dell’immaginario collettivo quale proiezione di istinti profondi e del tutto incontrollabili dell’umano e pertanto non passibile di emarginazione o di demonizzazione.

Si tratta, in effetti, dell’aspetto irrazionale del procedimento del pensiero sociale, basato sostanzialmente sull’elaborazione della realtà non vera ma immaginata: un’elaborazione fantastica che ha bisogno comunque di elementi concreti per essere compresa e accettata. Si tratta quindi di pensieri fantastici che prendono corpo in elementi reali. Il mondo soprannaturale e subnaturale è popolato da fate, spiriti, folletti che acquistano, di volta in volta, forme umane per essere capiti, letti, compresi. Una fata e il suo volo occupano spesso i sogni degli umani. Il confine tra questo soprannaturale e il suo parallelo sotterraneo è assai fragile e impalpabile. Non c’è di mezzo la terra, c è solo il rapido passaggio tra due mondi parimenti non umani: quindi il volo di una fata può anche trasformarsi in un sabba. Tuttavia non si dimentichi che la fata appartiene “d’obbligo” al mondo fantastico e anche a quello della magia bianca. Di conseguenza anche la strega, la sua interfaccia “diabolica”, s’inserisce nel mondo fantastico e continua ancora oggigiorno a raccontare il proprio ruolo agli umani.

La coda dell’abito della fata si trasforma facilmente nella coda di un serpente, di un drago o di una sirena. L’immaginario collettivo, basandosi su documenti storici frammentari, ha costruito una figura divenuta simbolo di diversità che è intrinsecamente anche simbolo di fertilità.

Nel Quattrocento è nata la storia di Melusina scritta da un autore tedesco, ma fondata sostanzialmente su documenti provenienti da tutta Europa, da culture diverse fra loro eppure contemporanee nella loro testimonianza.

Gilbert Durand ha analizzato nel suo libro “Le strutture antropologiche dell’immaginario” (G. Durand, nella sua opera “Le strutture antropologiche dell’immaginario”, tr. it. di E. Catalano, Dedalo, Bari, 1984, analizza I’ìmmaginario, i suoi archetipi e simboli ed indaga pure l’etimo di Melusina nella prospettiva della dea madre) l’immaginario, i suoi archetipi e simboli e afferma: “Il serpente è uno dei imboli più importanti dell’immaginazione umana [...]. La mitologia universale avvalora la tenacia e la polivalenza del simbolismo ofidio” (ivi p. 317). Lo studioso indaga l’etimo di Melusina nella prospettiva della dea madre e sancisce il principio che “si ritrova in Melusina, come nella Mermaid ingle e o nella Merewin dei ‘Nibelungen’, che la femminilità e la linguistica dell’acqua sono una cosa sola nella denominazione della Marfaye primordiale” (ivi p. 228). Durand spiega altresì l’elemento maschile e femminile in essa contenuti: “Nella tradizione occidentale moderna che illustra la dottrina alchimistica, è la Madre Lousine abitante delle acque il nome proprio dell’aquaster degli alchimisti. [...] L’immagine della Madre Lousine sarebbe dunque una proiezione dell’inconscio abissale, indifferenziato, originale, tinto, nella dottrina junghiana, dalla femminilità propria dell’anima maschile” (ibidem). Melusina resta un segno di prosperità e di fecondità (per la bibliografia sulla Grande Madre e sull’archetipo si rinvia a M. E. D’Agostini “Acqua, terra, aria, nel segno del serpente e del cigno”, sta in AA.VV., “Luoghi e figure della trasformazione: Favole zoomorfe nella letteratura inglese e tedesca dal Medioevo al Seicento”, Guerini c Associali, Milano, 1992, p. 21). Se è vero dunque che la fantasia si alimenta di presenze reali e reiterate della collettività, peraltro mai confessate, è vero anche che tali presenze subiscono elaborazioni private e segrete che tuttavia emergono insieme dall’immaginario collettivo: questa è la conferma che ogni immaginazione appartiene a un archetipo ben solido in noi e che la società che lo alimenta può arrivare storicamente a un punto in cui decide di distruggerlo. La figura della fata madre e regina protettrice rappresenta (in Francia) il nucleo sociale e, allo stesso tempo, è il simbolo di una profonda diversità; è proprio su questa diversità, che la connota, che si impernia l’impulso distruttivo da parte del potere costituito. Mentre nel 1456 veniva pubblicata la storia di Melusina, fata fondatrice della casata reale dei Lusignano, primi re di Francia, i frati domenicani Institor e Sprenger circa trent’anni dopo cercavano di convincere il mondo cresciuto intorno a loro, che l’eretico era il colpevole di ogni danno climatico, economico, fisico della società e perciò andava scoperto e reso impotente. Essi godevano anche della fiducia di Papa Innocenzo VIII che li aveva incaricati, con la bolla papale “Summis desiderantes affectibus”, di cercare, di individuare, incarcerare e punire le persone infette dal crimine della perversione eretica”, ossia di svolgere solennemente in Germania il ministero dell’Inquisizione. A questa bolla papale si ispirano non solo i due domenicani Institor e Sprenger per scrivere il loro “Malleus Maleficarum” (la prima edizione del “Malleus” uscì nel 1486·87 a Strasburgo. La seconda fu invece edita a Spira nell’aprile del 1487. Si registrano ben 34 edizioni fino al 1669 che interessano le città di Lione, Venezia, Parigi, Norimberga, Francoforte, Colonia: l’opera raggiunge la ragguardevole tiratura di 39.000 copie), ma anche J. Bodin e persino cent’anni dopo Giacomo I Stuart, futuro re d’Inghilterra, che nel 1597 scrisse la famosa “Demonologia” (“Il libro delle streghe”), avvalorando la tesi di una maggiore severità necessaria, nei processi alle streghe, per estirpare dalla radice il male e Satana. I grandi roghi della storia, accesi già sporadicamente nel Quattrocento ma divenuti familiari nel Cinquecento, nel Seicento, nel Settecento, si spengono nella seconda metà dell’Ottocento quando il principio motore della caccia al “diverso” assume altre dimensioni (tecnologiche e psichiche) e trova altri sistemi di tortura e di prevaricazione per cancellare l’essere umano nella sua giusta e doverosa diversità e omologarlo. Dunque i roghi sono ahimé ancora accesi ma non riusciamo a vederli: sono ammantati di leggi, di giustizia, di benessere.

Il Cinquecento è un secolo notoriamente denso di cultura e di scienza. A parte l’Italia in cui fiorisce la grande stagione del Rinascimento, se osserviamo attentamente l’Europa ci accorgiamo che essa è percorsa, a diverse latitudini da uno straordinario attivismo in molti campi del sapere e delle scoperte geografiche e scientifiche. La Spagna e con essa il Portogallo sono coinvolte nella libido di potere generata sul finire del Quattrocento dalle scoperte di Cristoforo Colombo, i Paesi Bassi e gran parte della Germania si preparano ad applaudire il genio liberaI-democratico e scientifico di Erasmo da Rotterdam, la Francia omaggia il grande Rabelais e guarda con ammirazione l’evoluzione della scienza di Nostradamus; l’Europa sta per accettare definitivamente la rivoluzione copernicana, l’Inghilterra rinasce all’insegna di Cristopher Marlowe e Tommaso Moro, e persino la parte orientale dell’Europa gode l’estremo vantaggio della politica asburgica ereditata da Carlo V.

Eppure l’apertura culturale e scientifica in atto viene costantemente negata dal potere della Chiesa di Roma che di fronte a questo rifulgere di opere, di arti e di scoperte, reagisce con estrema decisione, istituendo ufficialmente il tribunale della Santa Inquisizione preposto a mettere in pratica i dettami della bolla papale di Innocenzo VIII “Summis desiderantes affectibus” promulgata nel 1484. A questo punto ci si chiede come sia stato possibile che nel secolo più fiorente in fatto di scienza, cultura e arte, sia nato un fenomeno così intriso di superstizione, lontano dalla carità cristiana o da qualsiasi altra confessione, tale da creare una vera e propria persecuzione, definita “olocausto” sotterraneo e segreto di innocenti, vecchie, giovani, donne, uomini (in misura ridotta), bambini?

La pubblicazione del “Malleus” da’ ufficialmente inizio ai roghi, già accesi sporadicamente qui e là in Francia e Germania, precede di pochi anni la rivoluzionaria scoperta del Nuovo Mondo (1492) e la pubblicazione della “Nave dei folli” (“Stultifera Navis”) di Sebastian Brandt (1494), nonché la cacciata degli ebrei dalla Spagna (1492) che segna l’inizio di una nuova ondata di persecuzioni verso i “diversi di religione”.

Si può facilmente osservare che la persecuzione delle streghe e degli ebrei si è evoluta parallelamente quasi fino al Novecento: infatti la caccia all’eretico si acquieta soltanto nella seconda metà dell’Ottocento. A Passau l’ultimo processo per stregoneria termina nel 1873. La vicenda ebraica, ancora oggi non è affatto sedata. La persecuzione in sé denota una componente malata della società e la reazione di quest’ultima a un periodo di crisi; le scoperte scientifiche, mediche e artistiche della fine del Quattrocento e del Cinquecento indicano invece la parte sana della società che continua a progredire nella conoscenza. Che entrambe le componenti possano convivere e silupparsi contemporaneamente è un fatto storico incontestabile. La crescita paurosa dei roghi nel Cinquecento e nel Seicento, i due secoli per eccellenza connotati da scoperte scientifiche e dall’opera dei grandi geni dell’arte, dimostra qualcosa forse di insospettabile. Progresso scientifico e superstizione convivono e anzi, più si irrobustisce l’uno tanto più violenta diventa l’altra. Le facce opposte, contrastanti di tale evoluzione si sono evidenziate apertamente nel Novecento (Einstein-olocausto-caduta di imperi-persecuzione a tutti i livelli).

La fata e la strega sono due creazioni dell’immaginario collettivo che le colloca entrambe comunque nel mondo e nel ruolo della diversità, sia essa santa e celestiale o satanica e diabolica. Esse, tuttavia, sono più diverse della normale diversità dell’uomo.

Il pensiero, dunque, di un’intera società le ascrive entrambe a un mondo ben definito, recintato, a un luogo dai confini ben precisi e circoscritti: la diversità è normalmente sconosciuta arreca ansia, paura, terrore, alimenta la fantasia più sfrenata e va assolutamente contenuta entro confini ben precisi per poterla meglio osservare e forse anche controllare. All’angoscia che zampilla dall’ignoto, l’uomo reagisce con una forma di difesa qualsiasi, a volte incontrollata, e che può trasformarsi addirittura in offesa, in violenza verso tutto ciò che si ignora, verso le ombre che scaturiscono spontanee dal buio della non conoscenza. Nasce quindi l’esigenza di “recintare” la diversità che di fatto viene considerata come una menomazione e, in seguito, di sopprimere e cancellare ciò che è stato recintato. Fu così che nacquero la figura dell’eretico, la sua caccia, la necessità di sopprimerlo. L’eretico, inteso come parte satanica e diabolica del divino, s’incarna nella figura della strega, mentre la componente spirituale, celestiale ha come valida interprete la fata. Infatti la fata, in quanto “essere diverso”, non può essere seguita ed emarginata, è sempre invisibile e impalpabile.

Soffermandomi sulla figura della strega, merita di essere analizzata l’etimologia del termine ‘strega’ che ha un’origine assai varia nelle diverse lingue europee. In italiano è collegabile al latino “strix” (la strige o barbagianni, uccello notturno del malaugurio); in francese “sorcière” derivante dal latino “sortilega”, che indicava colei che traeva le “sortes”, ossia una divinatrice; in inglese “witch” discende da “wit” o “wicca” (saggia) derivante a sua volta dall’antico germanico “wizago”. In tedesco “Hexe” deriva dal vocabolo “hagzissa”, “hagazussa” (antico alto tedesco) e “hecse”, “hesse” (medio alto tedesco) e al pari di “witch” conserva nel suo etimo un significato sapienziale.

L’esistenza dell’antico termine “zaun” (recinto) da’ origine ad “hagazussa” (spirito dei boschi), da cui si fa derivare “Hexe” (strega), destinato a rappresentare il ‘luogo per eccellenza del diverso’ dal Medioevo ad oggi. La radice “hag” di “hagazussa” si può collegare a “zunrita” (a “Zaunreiterin”, ossia a colei che scavalca il recinto), pertanto la “Hexe” rappresenta sia la diversità che il continuo superamento della diversità. Osservata nelle diverse lingue, dal latino al francese, italiano, spagnolo, inglese e tedesco, la parola strega non ha un andamento unilaterale. Per alcuni significa “malefica”, per altri “donna saggia”, per altri “esperta di erbe”, per altri ancora “colei che predice” o “che vede lontano” (veggente). Facendo una proporzione gli attributi di malefica e venefica sono una vera minoranza. Predomina infatti il significato di “colei che scavalca o cavalca il recinto o la siepe” e il significato positivo di donna saggia, guaritrice consigliera.

Occorre aggiungere, a questo punto, in riferimento al ruolo di “Zaunreiterin” attribuito alla strega, che il confine, il limite, la soglia, sono necessari, anzi indispensabili poiché senza di loro non esisterebbe il contrario: il confine determina l’urgenza dello sconfinamento, che in sé e per sé è cambiamento, tra formazione e rinnovamento. Guardare oltre il confine significa riuscire a vedere e distinguere la differenza, valicarlo equivale di norma a vivere diversamente l’identità, vivere la differenza così come tracciarlo implica la possibilità di violarlo. La differenza è imprescindibile, senza di essa il mondo si appiattisce, annulla la propria identità. Il cancro odierno è la spinta verso l’omogeneo globale. Se ciò accadesse, il mondo si annullerebbe nel ‘tutto uguale a sé’. La differenza è necessaria ma implica sempre una tensione, un rapporto di confronto, uscire, entrare, violare, spostare il confine di un altro (cfr. G. Marramao, analizza a fondo questo concetto in “La cifra della differenza”, in “Aperture”, 2, Roma, 1997. In proposito si veda inoltre l’illuminante contributo di E. Castelli Gattinara, “Il coraggio del limite” apparso nella stessa rivista). La guerra ha queste origini. La pace si mantiene nel rispetto del confine. La disputa moderna generata dal confine si è realizzata in prima istanza con il reiterato superamento da parte delle avanguardie del confine e della soglia e in seconda istanza come creazione letteraria e linguistica di un terzo luogo, rispetto a quello dentro e fuori dal confine e al di qua e al di là del limite o soglia, quello cioè dell’iper-luogo dove è consentito ogni tipo di realtà nuova, in letteratura quello dell’iper-testo (l’ipertesto è quel mostro letterario, nel senso latino di “prodigio”, che consente di creare una cosa senza confini, pur mantenendo l’etica narrativa, o anche di evocare, per fare un esempio nell’ambito linguistico, l’immagine di una persona senza la delimitazione dei confini del suo corpo; come i confini di uno stato segnano il principio e la fine, così i contorni della figura indicano i margini, la forma e la geometria del corpo; queste linee possono essere ritenute immaginarie o convenzionali e rendere quindi necessaria la denuncia della loro stereotipizzazione, come avviene nell’opera di Elias Canelli “Il testimone auricolare”), dove è possibile tra formare il linguaggio e creare anche la trans-lingualità, fenomeno immediato di trans-ferimento di una lingua a un’altra (si intende non soltanto la traduzione, ma anche l’utilizzo di tre/quattro lingue diverse nello stesso segmento testuale; ricordo emblematicamente le operazioni translinguistiche nelle opere del poeta nazionale austriaco H. C. Artmann, esponente di spicco della neoavanguardia degli anni Sessanta).

La fata o la strega hanno quindi questo solido compito da espletare. Esse rappresentano una forma di diversità che costringe al rinnovamento e la Chiesa, a lungo, ha preferito la strada della radicalizzazione della tradizione.

È la stessa cosa che accade al mondo della natura vista nelle sue diverse dimensioni, entro cui Michael Ende (1929-1995, rimane uno dei più famosi e più letti autori del mondo. Tradotto in 40 lingue straniere, subisce tuttavia un destino controverso; viene infatti ritenuto dalla maggioranza della critica un autore di libri per ragazzi; attraverso le storie di ragazzi e bambini Ende trasmette un forte e chiaro messaggio culturale e linguistico) colloca una fiaba in otto quadri, scritta in dialetto bavarese (1984) e costruita intorno alla leggenda antica del coboldo chiamato Goggolori (M. Ende, “Der Goggolori, Eine bairische Mär”, Edition Weitbrecht, Stuttgart, 1984; non esiste ancora una traduzione italiana dell’opera). La storia rimane tesa tra due mondi, quello umano e degli spiriti, quello cristiano e pagano; si tratta di una storia d’amore contrastato, che coinvolge Aberwin, Zeipoth e il Goggolori, calata all’inizio del Seicento, quando sta per scoppiare la Guerra dei Trent’anni. Si tratta di un periodo estremamente attivo per l’Inquisizione, impegnata a stanare l’eresia in ogni luogo dell’Europa e ad accendere roghi per purificare il mondo dalla strega. E quindi la storia è anche costruita sulla tensione tra la normalità e la diversità. La figura della strega “hagazussa”, la “Zaunreiterin”, colei che cavalca il recinto o meglio lo scavalca, assume il valore emblematico del reiterato cambiamento. Tutti i limiti vengono superati e scavalcati. Non esiste una fine al ripetersi dell’“andare oltre” e ogni stereotipo viene ribaltato: il coboldo malvagio, la vergine quattordicenne, la strega malefica, l’innamorato Aberwin e persino l’eremita. Scavalcare il recinto, come fa “hagazussa” disturba i ruoli, scoordina il sistema, rende capaci di osare, trasforma, arricchisce.

Il fenomeno sociale della strega implica di per sé tre aspetti che non devono essere trascurati. La strega equivale infatti a ‘menomazione’, a ‘diversità’ e a ‘trasformazione’.

Sono tre ragioni valide per rispettarla e aiutarla ma anche tre ragioni valide per scatenare la persecuzione nei suoi confronti. La ‘menomazione’ è strettamente collegata alla diversità, esige una circoscrizione del danno. Ecco spiegato il recinto, la siepe, lo “Zaun”. Quindi da “hagazussa” deriva “Hexe” che di fatto indica colei che trova la forza di scavalcare il recinto in cui venivano catalogate ed emarginate le streghe. Il recinto circonda ed isola la menomata. La creazione della strega sgorga dal profondo dell’immaginazione popolare, o comunque di un pubblico vastissimo, incolto o colto, che abita città, villaggi, piccoli borghi sperduti.

La strega rappresenta nell’immaginario popolare colei o (qualche volta) colui che ha un rapporto stretto con Satana che consente alla succuba o al succubo di trasformarsi in qualsiasi cosa essa/o desideri, oltre che di tramutare qualsiasi cosa o uomo in altro da sé oltre che fare magie e sortilegi. La strega è soggetto di metamorfosi costante, ed è proprio questa mancanza di fissità di forma e di ruolo (e non quello di diabolica, perfida, malvagia) la sua unica caratteristica costante e certa. L’unica certezza è, dunque, l’incognita della sua provenienza, delle sue forme umane, della sua attività, del suo ruolo. Questo la rende pertanto assolutamente diversa da tutto il nucleo sociale in cui vive ed è inserita; anche se spesso questa diversità è ben vista dalle donne che traggono il massimo vantaggio dai suoi interventi, e sarà proprio a causa di tale diversità che verrà gettata sul rogo. La sua intelligenza ed esperienza non sono qualità ma menomazioni. Possedere le doti che sostituiscono l’operato di un medico o di un uomo di chiesa ed usarle, anche e soprattutto per il 99 dei casi a beneficio dell’umanità circostante, è grave abuso e bolla a fuoco e per sempre chi le possiede. È una ‘diversità menomante’ dichiarare di aver procurato guarigioni, serenità, salute, prosperità a una o più persone; è una grave alterazione dell’equilibrio della natura. Questi miracoli sono soltanto di Dio o di Satana. E certamente non è di Dio la donna che osa contravvenire ai dettami della Chiesa, che di norma le proibisce di conoscere il latino, le erbe medicinali, le leggi delle stelle, le dottrine evangeliche, le regole della matematica o i principi rudimentali della chimica e della fisica, dell’astrologia. Questa donna, ricca o povera che sia, è di Satana. E a lui deve tornare con la tortura, oppure deve essergli sottratta attraverso le fiamme del rogo (“Scheiterhaufen”).

La ‘diversità’ è quindi ‘menomazione’. Questo principio viene stabilito non dalla Santa Inquisizione ma dal contesto che vuole ignorante il 90% del mondo, quello che per censo, per posizione politica o economica, non appartiene all’aristocrazia, all’accademia, né tanto meno alle gerarchie ecclesiastiche.

Si pensi in proposito allo stolto del villaggio, al “Narr”, allo “Schelm” (Till Eulenspiegel) al deficiente caricato sulla nave e spedito lontano dal villaggio (Foucault). Egli porta con sé un’evidente menomazione, considerata identica a quella di colui che usa l’intelletto per conoscere, scoprire, imparare al di là dei limiti che gli vengono imposti dai poteri civili ed ecclesiastici. Il secolo apparentemente più liberale e democratico, e probabilmente quello più colto del secondo Millennio, il Cinquecento, è purtroppo il secolo della cultura elitaria, mascherata e paludata.

Un altro tratto peculiare della strega è la sua capacità di ‘trasformarsi’- Questo è attributo dell’essere soprannaturale, non di quello umano. Si comincia con la trasformazione dell’uomo in animale in ambito pagano (mitologia greco-romana) e si continua con la storiografia medievale popolata di elfi, gnomi, fate, esseri subnaturali e soprannaturali per approdare infine a Paracelso (1493-1541). Questi, nella sua opera “Paragrano” e in particolare nel “Liber de nymphis, sylphis, pygmaeis et salamandri et de caeteris spiritibus” (1566), rappresenta gli “arcana”, come anima della natura, che accompagnano l’uomo e le sue vicende, posizionati in un mondo ambiguamente cristiano/pagano, senza una precisa qualificazione, e comunque sempre in sospeso tra cielo e terra o tra cielo e sub-terra, dove sub-terra non è quasi mai definita inferno e sovrannaturale non è celestiale o divino. In questo limbo le forze sub-sovrannaturali non appartengono al divino, né al diabolico, si tratta di componenti della natura, di energie direttamente collegate all’uomo, a lui sinergiche e non concorrenziali (ad esempio le fate possono più delle donne oppure le streghe hanno poteri sovrumani), spesso, quasi sempre di aiuto all’uomo: la natura è benigna, ovvero è in equilibrio con le forze sub-naturali e sovrannaturali.

Anche la fede è una forza della natura, potenziale divino nell’uomo, sua forza e timolo, sua struttura immortale, sua apirazione. L’immaginario medievale concepisce l’intervento delle forze sub-sovrannaturali come compensazione e aiuto, non come lacerazione e oscura trama diabolica.

Dunque è concepibile nella storiografia medievale la nascita di un grande casato francese la nascita della sua regina dalla vicenda reale-fantastica della fata Melusina, che scegliendo di sposare un mortale e di dargli una numerosa progenie, paga il suo passaggio alla mortalità menomandosi e trasformandosi: essa si tramuterà infatti ogni sabato in donna serpente/donna drago (si rimanda a questo riguardo a AA.VV., “Luoghi e figure della trasformazione. Favole zoomorfe nella letteratura inglese e tedesca dal Medioevo al Seicento”, cit. pp. 13-72). Il segno del mostro, quello della reiterata menomazione, sta nella trasformazione coatta, che non è mai definita tuttavia diabolica. Melusina traghetta la sua storia dal Duecento al Novecento e oltre.

La storia della sirena e della donna serpente che vede la luce ufficialmente con la “Melusine” di Thüuring von Ringoltingen, nel 1456, continua a destare scalpore come “Volksbuch”. La protagonista viene definita strega, anche se si tratta di una fata, e Paracelso è il primo che la solleva da questo pesante giogo riconsegnandola alla sua storia: quella di un essere soprannaturale che accetta una menomazione (cfr. ibidem) (la trasformazione in pesce/serpente una volta la settimana) pur di partecipare al grande rito dell’umanità, il matrimonio con Raimondino, un mortale che dal nulla diventerà re della stirpe dei Lusignano, e il parto di ben dieci figli. Agli inizi del Cinquecento Mariken di Nimega (si veda l’opera “Mariken di Nimega”, 1520 circa, di anonimo fiammingo) è al centro della storia di un patto per la conoscenza, tra un essere umano e un essere soprannaturale, il diavolo in questo caso, e anticipa sorprendentemente la celebre “Storia di Faust” di J. Spiess (1587), collegando comunque le due versioni della diversità che stanno per emergere dall’appartenenza medievale alla stessa problematica del resto messa ben in rilievo da Paracelso nella sua opera “Paragrano” (circa 1531). Qui il celebre medico, alchimista e astrologo svizzero lascia trasparire come dal mondo della natura, compatto e suddivisibile in tre settori (sovranatura, natura e sub natura), emergano due alienazioni, entrambe legate alla ricerca scientifica, quella della strega e del mago, che scelgono la strada “altra’ dalla ortodossia per sete di conoscenza, e quella della duplicità che si evolve all’insegna della trasformazione coatta come simbolo di regalità che viene dalle radici del popolo in congiunzione con le forze soprannaturali. Col passare dei secoli anche la strega i trasforma: nella stagione classico-romantica diviene Ondina, Sirena, il doppio e in tutto il Novecento da Kafka in poi una figura dalla forte connotazione simbolica (si citano a questo proposito “Die neue Melusine” nei “Wilhelm Meisters Lehrjahre” di Goethe, “Undine” di La Morte-Fouqué. “Peter Schlemihls wundersame Geschichte” di Chamisso, “Die Elixiere des Teufels” e “Das Fräulein von Scudery” di E.T.A. Hoffmann, “Loreley” di Heine. In area novecentesca si segnalano “Das Schweigen der Sirenen” di F. Kafka, “Kindheit de Zauberers” e “Traumfährte” di Hermann Hesse, “Undine geht” di Ingeborg Bachmann, “Die Mystifikationen der Sophie Silber” e “Hexenherz” di Barbara Frischmuth, “Leben und Abenteuer der Trobadora Beatriz nach Zeugnissen ihrer Spielfrau Laura e Amanda. Ein Hexenroman” di lrmtraud Morgner, “Sonderbare Begegnungen” di Anna Seghers, “Hallo, Schöne” di Gabriele Wohmann, “Unter den Linden” e “Selbstversuch, Trakrat zu einem Protokoll” di Christa Wolf, “Anna Göldin” di Eveline Hasler, “Die Tochter des Bürgermeisters” di Steven Ozment, “Krabat oder Die Bewahrung der Welt” di Jurij Brezan, “Die Tochter des Salzsieders” di Ulrike Schweikert, “Hexen in der Stadt” di Ingeborg Engelhart).

Chi difende il mondo della sovranatura e della sub-natura nel tentativo di integrazione con la natura, viene demonizzato diventa un capro espiatorio (la caccia alle streghe come fatto storico esiste. L’Inquisizione ha lavorato con puntiglio e sistematicamente ha “eliminato” in duecento anni più di nove milioni e mezzo di persone, di cui 1’85% donne, la maggior parte giovani, ricche, scomode perché non si piegavano ai dettami della tradizione. Le erbarie e le levatrici perseguitate, erano anziane, discrete e di buona fede cristiana; qualcuna di loro si è salvata dalla tortura ma non è più stata normale. Questa strage, che qualcuno ha chiamato olocausto, ha coinvolto l’intera Europa. Il fenomeno è stato analizzato con molta intelligenza da René Girard nel suo “Le bouc èmissaire” (edito a Parigi nel 1982 e uscito in traduzione italiana da Adelphi nel 1987 con il titolo “Il capro espiatorio”) dove considera le varie forme di persecuzione scelte dall’uomo a danno di un proprio simile (gli animali e la natura non conoscono il concetto) e inizia enumerando e descrivendo gli stereotipi alla base di questo fenomeno. “Mi occuperò soltanto delle persecuzioni collettive o con risonanze collettive. Per persecuzioni collettive intendo le violenze commesse direttamente da folle omicide, come il massacro degli Ebrei durante la peste nera del Trecento (e oltre, fino a oggi). Per persecuzioni con risonanze collettive intendo violenze come la caccia alle streghe, legali nelle loro forme ma generalmente incoraggiate da un’opinione pubblica sovraeccitata (spesso isterismo collettivo)” (p. 29). Lo studioso analizza poi la crescita dello stereotipo che induce la collettività alla persecuzione e individua le tre principali fonti dalle quali emergono le ragioni che “creano” la vittima: ragioni culturali, religiose e fisiche (ogni sorta di handicap, deformità genetiche, mutilazioni accidentali e persino malattie in generale o la follia) polarizzano l’attenzione dei persecutori. L’attenzione poi diventa abitudine e una volta individuato il soggetto da discriminare ecco il gioco è fatto: nasce il capro espiatorio) (in quanto l’integrazione non avviene mai del tutto e resta il segno della diversità menomante) e subisce ogni sorta di disprezzo e di persecuzione fisica e morale (stolto/folle, ebreo/strega, uomo del libero arbitrio/Faust). La strega risale quindi ai tempi della disperazione della Chiesa e la strega è il suo delitto (Friedrich von Spee fu il gesuita e l’inquisitore che denunciò la pregiudizievole procedura giudiziaria seguita dall’Inquisizione nei processi contro le streghe. Con l’opera “Cautio criminalis” (1631) uscita anonima, per ragioni di sicurezza, l’autore minò le basi della caccia alle streghe, denunciandone gli abusi giuridici ed etici e le atrocità. La Chiesa spegne la natura, a maggior ragione deve reprimere la strega, indagatrice empirica dei tesori che la natura offre, da lei poi utilizzati per curare e guarire l’umanità; la “strega” agisce fuori dai “confini”, scavalca i “limiti” posti dalle logiche e dagli interessi del potere costituito.

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Il grassetto iniziale e quello di questa nota conclusiva sono miei. Il dato di “nove milioni di vittime” di Hans Kung (cfr. Mario Bacchiega “Concilio di Calcedonia…”, op. cit.) ed il dato di “nove milioni e mezzo di persone, di cui 1’85% donne” di Maria Enrica D’Agostini (“Il fantastico e le streghe” in “Pagine inedite di Maria Enrica D’Agostini e la voce di Elias Canetti”, op. cit.) indicano dunque che il “Guinness World Record” dello sterminio appartiene non ad Hitler o a Stalin ma alla chiesa cattolica.

Nereo Villa, partigiano del presente
Castell’Arquato, 9 maggio 2015