MELUSINA, PASSAGGIO DAL VECCHIO AL NUOVO

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La parola “serpente”, in ebraico “nachash”, si scrive con le lettere NUN, CHET, SCIN, in valori numerici 50, 8, 300, somma totale 358.

La parola “messia”, in ebraico “mashiach”, si scrive con le lettere MEM, SCIN, IOD, CHET, in valori numerici 40, 300, 10, 8, somma totale totale 358.

Questi due concetti (“nachash” e “mashiach”), rispettivamente “serpente” e “messia”, sono dunque “parenti”, in quanto hanno il medesimo valore numerico complessivo delle lettere che li formano (la lingua ebraica non distingue fra lettere e numeri: le lettere alfabetiche stesse sono contemporaneamente numeri).

Come si può comprendere questa parentela fra serpente e messia? La risposta a questa domanda viene dal simbolismo del serpente indicatore della direzione verso l’alto che l’egoità doveva prendere, al fine di conquistare fiducia nell’eternità del proprio io: “come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’Uomo” (Gv 3,14).

Il “figlio dell’uomo” era infatti un nome tecnico per indicare l’io (Urs von Balthasar, “Sponsa verbi”, Ed. Jacabook, p. 480): il Figlio dell’uomo, in quanto “io”, non nasce da carne e sangue, bensì dall’elemento spirituale dell’umanità la cui natura è tale che muove in sé la possibilità della scoperta dell’io. Il bambino, a un certo punto della sua infanzia dice “io” a se stesso. Si tratta della vera e propria nascita verginale del Figlio dell’uomo da parte della natura umana e ciò era anche il senso della nascita del Cristo in quanto involucro (sindéresi) dell’“io sono” nell’uomo. Vi è un rapporto di equivalenza fra la storia dell’individuo e quella dell’umanità. Infatti, tanto nell’infanzia dell’umanità quanto in quella del bambino si passa dalla consapevolezza di sé in terza persona a quella in prima persona. Troviamo testimonianza di ciò nei più antichi testi. Si veda per esempio il ringraziamento del faraone Azoze (V dinastia, circa 2900 a.C.) al suo vizir Sepses-rie. Il faraone parla di se stesso sempre in terza persona singolare come gli infanti quando, prima di scoprire la parola “io”, indicano se stessi servendosi del proprio nome: “La mia maestà ha visto questo scritto che mi hai fatto portare nella corte, in questo bel giorno in cui è veramente rallegrato il cuore di Azoze con ciò che veramente ama… Quanto è vero che Azoze vive all’infinito, se chiederai subito per lettera alla mia maestà una ricompensa qualsiasi, la mia maestà la farà dare subito” (G. Farina, “Grammatica della lingua egiziana antica”, Ed. Hoepli, pag. 183 e 184). Anche nei vangeli si possono trovare tracce di questo modo antico di indicare l’io: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore....” (Lc 1,46). La mancata conoscenza di questo sviluppo storico dell’autocoscienza - da parte delle confessioni religiose, preposte a promuovere in senso paolino la capacità dell’io (impulso cristico) di superare i condizionamenti dell’ego (“Non io ma il Cristo in me”: vedi la lettera di Paolo ai Galati, II°cap., versetto 20) - comporta (purtroppo) la nascita della psicanalisi, tentativo fallito di oggettivazione dell’io ai fini della sua individuazione ed evoluzione.

Il passaggio dall’antico serpente al messia non è altro che la trasformazione dell’antica veggenza basata sulla consaguineità alla nuova veggenza scientifico-spirituale, alla quale partecipò tutto il Medioevo fino al ’900, anticipando nel suo contesto culturale molte peculiarità del secondo millennio e le aspettative del terzo

Rileggendo nelle figure di Parzival, Tristano, Sigfrido, Faust e Melusina le simbologie tipiche di questo linguaggio, tanto il Medioevo che il ’900 appaiono come prospettive di avanguardie culturali e letterarie, in grado di far passare l’individuo dalla seconda rivelazione dello spirito - la prima fu quella di Mosè: “eié escer Eié” (“Io sono l’io sono”); la seconda quella del mistero del Golgota - alla terza, cioè al mistero del Graal.

Ecco perché nel suo “Parzifal” Wolfram von Eschenbach, a proposito del “gànganda greida” e della giovane che teneva sulle ginocchia il suo sposo morto, scriveva che “una certa cosa si chiama il Gral” parlando dell’astrologo spagnolo Flegetanis: “Fu un pagano, Flegetanis, stimato per le sue arti rare, che per primo scrisse del Graal” (W. von Eschenbach, “Parzifal” 453/23) e in base alle indicazioni di Flegetanis, nel quale riviveva l’antica conoscenza della scrittura stellare, vide “la cosa chiamata il Gral”...

Ed ecco perché era necessario che tale innalzamento arrivasse fino al riconoscimento del nuovo impulso che l’umanità incominciava ad avvertire nel capo umano (“ghilgulet” o Golgota = “cranio”). È infatti proprio la testa dell’uomo, il capo, che nel periodo della seconda rivelazione dello spirito si innalza a sede di una coscienza individuale, libera e illuminata dal pensiero.

Che oggi l’uomo sia decaduto nella “papolatria”, non toglie nulla agli (anzi avvalora gli) sforzi fatti dalla vera cultura dei precursori dello spirito del tempo nuovo.

Sottolineo a questo proposito, soprattutto sul passaggio dal “serpente” terrestre e acquatico (Melusina) al “serpente” volante nell’aria, il lavoro di Maria Enrica D’Agostini, “Luoghi e figure della trasformazione” (Ed. Guerini, Milano 1992).