Le tre rivelazioni dello spirito

La rivelazione odierna è quella in cui all’uomo si manifesta l’elemento divino quando riesce ad abbandonare lo stadio della coscienza primitiva in cui considerava reale solo quello che poteva vedere con gli occhi e toccare con le mani, cosicché richiedeva anche per la sua vita morale motivi di azione anch’essi percepibili grazie ai sensi. In quello stadio di coscienza primitiva l’uomo richiedeva un essere che gli comunicasse queste ragioni in modo comprensibile ai suoi sensi, e se le lasciava dettare come “mitzvòt” (parola ebraica che significa “consigli”, generalmente tradotta come “comandamenti”) da uno o più uomini ritenuti più assennati e più forti di lui, o che per qualche altro motivo riconosceva come potenze poste al di sopra di lui.
In questo modo nacquero i principi morali dell’autorità familiare, statale, sociale, ecclesiastica e divina.
L’uomo più in basso della scala evolutiva crede ancora a un altro singolo uomo; quello un po’ più progredito si lascia dettare le norme morali da una collettività (Stato, società). Entrambi si basano sempre su potenze percepibili. Chi invece arriva finalmente ad avvertire come in sostanza si tratti soltanto di altri uomini deboli come lui, si rivolge per spiegazioni a una potenza più alta, a un essere divino, al quale però attribuisce qualità percepibili dai sensi.
Si fa comunicare da questo essere il contenuto concettuale della sua vita morale, ed anche questo in un modo percepibile, sia che il Dio gli appaia in un roveto ardente, sia che passi fra gli uomini in forma umana, e dica loro con parole, afferrabili dall’orecchio, quello che devono e non devono fare.
Il più alto grado evolutivo di questo realismo primitivo è nel campo della moralità quello in cui il comandamento morale (l’idea morale) è pensata indipendentemente da ogni entità estranea e ipoteticamente come forza del tutto proveniente dal proprio interno.
Ciò che l’uomo sentiva prima esteriormente come voce di Dio, lo sente ora come potenza a sé nel suo interno e parla di questa sua voce interna in modo da porla al riparo della coscienza.
Con ciò è già abbandonato lo stadio della coscienza primitiva, e si è già entrati nella regione in cui alle leggi morali quali norme, si da’ un’esistenza autonoma (cfr. Rudolf Steiner, “La filosofia della libertà”, cap. 10°).
A questo stadio evolutivo si entra nella terza rivelazione dello spirito. Intendo per spirito la forza di autopresentazione che più o meno verso il 3° anno di età permette al bambino di riconoscersi come “io” per individuare se stesso nei suoi rapporti col prossimo. Si tratta di una forza logica e dinamica (logodinamica) avente qualità immateriale. Ciononostante è percepibile dall’uomo, anche se questa percezione appartiene non più al mondo sensibile o materiale ma a quello sovrasensibile o immateriale, e quindi spirituale.
La terza rivelazione è la rivelazione dell’io come spirito santo, ed è l’ultima e definitiva rivelazione dell’elemento divino nella divino-umanità. La prima fu quella dell’autopresentazione dell’io, la seconda fu quella del suo esprimersi nonostante la croce, e la terza è quella odierna in cui l’io è percepibile come luce interiore da ogni essere umano come involucro protettivo di se stesso. Con questa rivelazione dello spirito, ogni tradizione termina in quanto lunare: la luce riflessa della luna non basta più all’uomo, il quale esige di vedere direttamente la provenienza solare di quel riflesso. Il Libro materiale della prima e della seconda rivelazione (Bibbia e Vangeli) sono nella terza rivelazione trasformati nel Libro immateriale che ogni essere umano porta in sé come io.
Certamente chi catechizza i suoi simili come facevano duemila anni fa gli apostoli, i quali ricevettero dal Cristo la missione di andare a portare la buona notizia a tutti, è giustificato dai Vangeli, dato che costoro sono stati i primi annunciatori (catecheti) della buona novella. Questa catechizzazione però non c’entra con la terza rivelazione. Il periodo dei primi catecheti è quello della seconda rivelazione. Ma oggi siamo nel periodo della terza.
Nessuno lo dice perché nessuno se ne è ancora reso conto, e tutti i diversi gruppi confessionali odierni (protestanti, mormoni, testimoni di Geova, evangelici, ecc.) si comportano ancora come i catecheti della seconda rivelazione.
La prima rivelazione, che evidentemente non è stata ancora compresa, fu quella di Mosè: era il tempo del bue Api e della precessione solare nel Toro. Mosé disse allora che il nome di Dio era “Io sono” perché la voce che udì quando chiese a Dio il suo nome fu “Eié escer eié”, vale a dire “Io sono l’Io sono”, oppure “Sarò” (eié) “quel che” (escer) “sarò” (eié). Perché l’“io” avrebbe dovuto incarnarsi in ogni essere umano.
La seconda rivelazione fu quella del pesce “Ictús” e della precessione solare nei Pesci. “Ictús” è infatti per l’alfabeto latino l’acronimo di “Iesûs Christós Theoû Uiós Sotér”, cioè “Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore”.
Oggi siamo nella terza rivelazione dello spirito, quella di cui il Cristo diceva: vi manderò lo spirito di verità (Gv 14,16; 14,26; 15,26; 16,7), e siamo - anche se vi sono ancora astronomi che dicono che stiamo solo entrando - nella precessione solare dell’Acquario, segno zodiacale dell’equilibrio fra pensare sentire e volere. Lo spirito di verità (detto anche “paraclito” o “consolatore” o “spirito santo”) non è altro che spirito scientifico applicato anche alle cose immateriali del mondo soprasensibile, di cui l’io umano è un esempio.
In effetti l’idea della triarticolazione sociale non è un’invenzione ma una scoperta di Rudolf Steiner, il quale non inventa alcunché. Si accorge semplicemente di un grave errore fatto dalla chiesa cattolica come impedimento all’avvento dello spirito promesso dal Cristo, che è anche la sua seconda venuta, stavolta nel pensare umano.
In base a tale scoperta si arricchisce, ovviamente in modo conveniente allo spirito del tempo attuale, la primigenia tricotomia platonica e paolina, in base alla quale l’uomo fu sempre caratterizzato secondo corpo, anima e spirito.
Il sopracitato grave errore della chiesa fu l’abolizione dello spirito nell’869 (Concilio di Costantinopoli) e con ciò della tricotomia paolina, che oggi, Era della terza rivelazione, dovremmo, sì, predicare ma come triarticolazione dell’organismo sociale, vale a dire come reale rivoluzione cristiana.
In questa pagina non parlerò della triarticolazione sociale, ma della terza rivelazione dello spirito, a partire dall’errore della chiesa, che nella sua mania di controllare le anime dal confessionale, ne ha impedito lo sviluppo.
La terza rivelazione è l’ultima e sarà valida per sempre (Gv 14,16), ovviamente quando incomincerà a svilupparsi. Posso dire di averla studiata per circa trent’anni incominciando dal 1972, quando mi accorsi dell’opera di Rudolf Steiner, che considero pontefice spirituale dei tempi nuovi.
Nell’869 d.C. la tricotomia fu dunque soppressa dalla chiesa cattolica mediante il Concilio di Costantinopoli.
Le radici di questa soppressione sono antichissime, perché l’opera antiuomo, anticristiana ed anti trinitaria, risale alla concezione faraonica dello schiavo, e questo concilio ne fu figlio, dato che dall’869 d.C. in poi sparì letteralmente dalla “fede” l’uomo pneumatico, cioè l’uomo dell’io, o dell’elemento sovrasensibile o spirituale o immateriale, che sarà poi, con Marx, considerato “sovrastruttura della materia”.
Anche se gli antichi conoscevano l’uomo come un essere fatto di corpo, anima e spirito, il Concilio di Costantinopoli dichiarava eretica questa dottrina, stabilendo che la costituzione umana era fatta solo di corpo e anima, tentando così di cancellare dalla coscienza umana, la realtà dello spirito, cioè dell’io.
Con Marx e Freud, la realtà cominciò ad essere creduta come costituita dal solo mondo fisico e corporeo, percepito mediante i sensi.
A questa visione malata, Jung aggiungeva, sì, la realtà dell’anima, ma la intrappolava in un soggettivismo e in un relativismo vanificanti “ogni speranza di dare risposta agli interrogativi ultimi” (Lucio Russo, Intelletto d’amore, in “Massimo Scaligero. Il coraggio dell’impossibile”, Ed. Tilopa, Roma, 1982).
Insomma, in un modo o nell’altro, la maggior parte degli esseri umani non conobbe queste cose, vale a dire il Cristo come involucro dell’io, presente in ogni uomo.
La chiesa cattolica, precorrendo i tempi, nell’869 d.C., si era comportata a Costantinopoli esattamente come fanno oggi i politici quando, giocando con le parole, mettono a punto ciò che i contribuenti devono fare per lo Stato, cioè pagare, sostituendo così in campo sociale il concetto di spirito umano con quello di contribuente.
L’eliminazione dello spirito umano è sottolineata spesso da Steiner: «Negli ambienti in cui il cristianesimo era diventato ufficiale alla maniera romana, si cercò sempre più di nascondere, di sopprimere il concetto di spirito [...]. Questa tendenza conduce in ultimo al fatto che nell’VIII concilio ecumenico di Costantinopoli, nell’anno 869, fu enunciata una formula, un dogma, che nelle parole del testo forse non si esprime ancora chiaramente. Il testo del relativo decreto conciliare - canone XI - non usa i termini “anima” e “spirito”, ma si limita a condannare in modo equivoco coloro che attribuirebbero all’uomo “due anime” ma che ha finito poi per dar luogo all’interpretazione che non sia cristiano parlare di corpo, anima, e spirito: che sia invece cristiano solo l’affermare che l’uomo consta di corpo ed anima. Nell’ottavo concilio ecumenico, originariamente la cosa fu presentata con questa formula: l’uomo ha un’anima pensante e un’anima spirituale. Per non PARLARE dello spirito come di un’entità particolare [perché in tal caso avrebbero dovuto parlare dell’io - ndr], fu coniata questa formula: l’uomo ha un’anima pensante e un’anima spirituale. Ma tutto tendeva ad escludere lo spirito dalla concezione del mondo» (R. Steiner, Berlino, 27 marzo, 1917). E ancora: «Dobbiamo ora pensare a quali interessi vi siano nella storia spirituale moderna. Persino la triplice struttura dell’organismo umano o dell’essere umano nella sua totalità, come ho spesso accennato, è stata in certo senso eliminata per la civiltà occidentale, dall’ottavo concilio ecumenico di Costantinopoli dell’anno 869: è stato elevato a dogma che il cristiano non debba credere a un’entità umana ternaria, ma solo a una binaria. Credere in corpo, anima e spirito è interdetto, e teologi e filosofi del medioevo che sapevano ancora molto della verità ebbero una gran pena a distanziarsi da essa, perché la cosiddetta tricotomia, l’articolazione dell’uomo in corpo, anima e spirito era stata dichiarata eretica. Dovettero insegnare la dualità: l’uomo consisteva di corpo e anima e non di corpo, anima e spirito. Quello che certi uomini, certi esseri sanno bene è quale enorme importanza abbia per la vita spirituale umana mettere la partizione binaria al posto della ternaria. Si deve guardare in tali profondità se si vuol rettamente comprendere perché nel numero di novembre del periodico “Stimmen der Zeit” (Voci del tempo) il padre gesuita Zimmermann fa presente che uno degli ultimi decreti del Santo Uffizio di Roma proibisce ai cattolici, sotto pena di non ottenere l’assoluzione nella confessione, di leggere scritti teosofici, di possederli o di prender parte a ogni attività teosofica. Padre Zimmermann interpreta il decreto nelle “Stimmen der Zeit” [...] nel senso che esso si applichi anzitutto alla mia antroposofia, che cioè si debba curare che quei cattolici, che vogliono essere riconosciuti da Roma come veri cattolici, non abbiano da occuparsi di letteratura antroposofica» (R. Steiner, “La missione di Michele”, Milano, 1977).
Il gesuita Otto Zimmermann aveva polemizzato contro Steiner e contro l’antroposofia su un periodico cattolico di Friburgo, che fino al 1914 portò il nome di “Stimmen aus Maria Laach”, e che nel numero di novembre del 1919, nell’articolo intitolato “La condanna della Chiesa contro la teosofia”, il gesuita aveva esteso anche all’antroposofia tale condanna del “Sant’Uffizio di Roma” (cfr. ibid.).
In particolare, in quel Concilio, organizzato contro il patriarca Fozio, fu stabilito nei “Canones contra Photium”, al Can. 11, che l’uomo non ha due anime, bensi “unam animam rationabilem et intellectualem” (cfr. Cornelio Fabro, “L’anima. Introduzione al problema dell’uomo”, p. 127, Editrice del Verbo Incarnato, Roma 1955, p. 127).
Otto Willmann, filosofo cattolico, stimato da Steiner, aveva scritto nella sua opera in tre volumi “Geschichte des Idealismus”, Braunschweig 1894, a pag. 111 del II vol.: “L’abuso operato dagli gnostici della distinzione paolina tra l’uomo pneumatico e quello psichico, dichiarando il primo espressione della loro perfezione e il secondo rappresentante dei cristiani soggetti alle leggi della Chiesa, decise la Chiesa stessa all’esplicito rigetto della tricotomia” (“La missione di Michele”, op. cit.).
Steiner disse spesso anche che la chiesa cattolica, stabilendo che la costituzione umana fosse formata soltanto dall’anima e dal corpo, aveva in tal modo tentato di cancellare lo spirito, cioè l’io, dalla coscienza umana, e che a proseguire su questa aberrante strada dei padri conciliari, fu poi, grazie al materialismo e alle scienze, inconsciamente asservite a ciò, Karl Marx, con un secondo tentativo del genere: questa volta, però, dopo l’io, si tentò di cancellare l’anima; e che pertanto da questo punto di vista Marx si era comportato esattamente come quei padri conciliari dell’869 d.C.!
Ecco perché oggi continua ad intervenire l’ipocrisia cattolica dicendo: fate i buoni, non fate guerre, pagate le tasse, date il cuore a Gesù Cristo (AIDO), donate il sangue (AVIS), siate uomini di buona volontà (volontariato, no profit, socioassistenza, ecc.).
Infatti, nel suo delirio di onnipotenza infallibilista, dopo aver condannato col modernismo anche ogni nuova filosofia (l’antroposofia di Steiner fu considerata modernismo), la chiesa cattolica oggi non può fare altro che questo tipo di predicazione buonistica o spiritual-materialistico-pratica, chiedendo scusa e perdono qua e là per salvarsi ancora la faccia paonazza dalla vergogna… naturalmente dopo aver inserito nella sua dottrina la liceità morale della pena di morte (artt. 2266-2267) e della guerra giusta, dopo aver introdotto nella nuova liturgia il rock mistico e nella nuova pastorale i frati ballerini e le suore cantanti o telecroniste di calcio e - perché no? - le pornodive pentite in clausura a “Domenica in”. Ricordate?
Insomma la chiesa è finita. “La messa è finita” è perfino il titolo di un film.
Ciò è avvenuto perché la chiesa cattolica si è sempre più materializzata e appesantita fino alla carne, alla compravendita delle armi fatta dalla banca vaticana, e cose di questo genere. Sottolineo che è illusorio credere che questo (come qualsiasi altro) papa possa mettere a posto le cose come un mago che fa sparire il coniglio, anzi il coniglio marcio.
Incarnazione e risurrezione appartengono all’io incarnato (spirito), non alla carne.
Occorre quindi riflettere sul fatto che non si tratta di spiritualizzare la gente con ideologie o teologie o partitocrazie, dato che non esiste un uomo che non dica “io” a se stesso.
E l’io è del tutto immateriale, dato che non ha alcuna controparte fisico sensibile (tale controparte infatti ogni sette anni cambia radicalmente tutta la sua conformazione atomico molecolare e cellulare, eppure io dico sempre “io” per indicare me stesso in quanto spirito rispetto agli altri).
Da questo punto di vista, la cosiddetta “risurrezione della carne”, spacciata per risurrezione dello spirito (vedi ad esempio il testo “questo mio corpo vedrà il Salvatore” del noto canto “Io credo risorgerò”) è negazione dell’io: lo stesso io dell’autopresentazione a Mosé con le parole “Eié escer eié” (io sono l’io sono), e che il Cristo attua (fecondando col suo sangue il Golgota e la terra). Ecco perché l’idea di risurrezione della carne è un ripugnante peccato contro lo spirito.
Un altro grave peccato contro lo spirito facilmente degenerante in criminalità è ritenersi investiti da Dio nel fare ciò che facciamo. Per esempio un uomo che dica ad un altro uomo “io ho lo spirito santo perché me l’ha detto Dio, mentre tu non ce l’hai” è un pazzo scatenato a piede libero, che non conosce il concetto di uguaglianza da uomo a uomo.
L’uguaglianza sussiste in quanto tutti siamo portatori dello stesso io, che è immateriale, indipendentemente dal fatto che uno annunci qualcosa e l’altro si trovi ad ascoltare.
Oggi certi fenomeni mostrano uomini appartenenti a confessioni religiose affermare che il Logos di Dio non è il Logos umano.
Questa informazione è falsa. Perché se fosse vera significherebbe che il Logos non si è incarnato.
Chi da’ queste informazioni false avrà senz’altro i suoi motivi, che non c’entrano con la concezione scientifico-spirituale, né con la terza rivelazione dello spirito.
Ciò che conta per la scienza dello spirito è che si proceda esattamente coi medesimi criteri usati nelle scienze naturali: ciò che cambia è solo l’oggetto di osservazione (che è anche l’elemento immateriale, non solo quello materiale), e se un oggetto di osservazione è A non può essere la negazione di A. Dunque la diversificazione del Logos riguarda ciò che NON è il Logos, così come la diversificazione dell’io riguarda ciò che NON è l’io! Una goccia di mare, pur essendo più piccola del mare, non è sostanzialmente diversa dal mare. La sostanza di un litro d’acqua è identica ad ogni sua goccia. L’io è identico in tutti. Certamente esiste un io cosmico, un Logos, che è lo spirito del Sole, o di ogni altra stella, ma proprio per questo motivo vi è un io che è in tutti e che diventa un io personale, individuale, che si individua ulteriormente, divenendo un io razionale, astratto, per poi procedere ancora di più fino a diventare egoismo, ma è sempre lo stesso io (cfr. M. Scaligero, “Graal. Rivista di scienza dello Spirito”, Ed. Tilopa, Anno XX - N. 79-80 - 2002, “p. 107), tramite il quale si può procedere però anche in senso inverso, cioè convertendo la direzione del proprio moto dal basso all’alto, e sperimentando così il proprio essere universale (universalità del pensare).
La terza rivelazione, promessa dal Cristo come consolatore o spirito di verità non è un contenuto di fede da credere o da non credere, ma è ciò che dello spirito di verità l’uomo riesce scientificamente a sperimentare in se stesso mediante la conversione di tale direzione del proprio pensare.
Il tempo della fede astratta (o teologica, o ideologica) in Dio è finito: “Non un Dio umanamente personale, né energia o materia, né la volontà senza idee di Schopenhauer, possono far da unità universale” (R. Steiner, “La filosofia della libertà”, cap. 5°).
È finito il tempo dei contenuti di fede nei discorsi!
Se non fosse finito, dove sarebbe il Consolatore, lo spirito di Verità? Nella conoscenza dei libri antichi? No. Perché si potrebbero anche conoscere a memoria senza minimamente sperimentare un pensare neotestamentario, e ciò sarebbe un ri-catapultare l’individuo a millenni indietro nell’evoluzione: “Io ho lo spirito di Dio, tu no”; “Dio mi ha detto che io ho lo Spirito Santo, mentre a te non l’ha detto”. Una volta, addirittura, un prete mi scrisse una email giustificando come segue il chiamare il papa “Santo Padre” nonostante Mt 23,9: “Se il successore di san Pietro fosse un uomo come te, non lo chiamerei Santo Padre. Ma Gesù Cristo a lui ha dato le chiavi del Regno dei cieli e poi gli ha garantito anche qualcosa d’altro. Tutte cose che a te non ha dato. Lascia dunque che eserciti una paternità spirituale pascendo le pecore e gli agnelli che Cristo gli ha affidato”!
Questo atteggiamento è chiamato nell’analisi transazionale “Io sono ok, tu non sei ok”, ed è spiegato come tipico della criminalità…
L’annuncio di costoro è sempre anacronistico e perciò conduce non al presente ma al passato (della seconda rivelazione o della prima). Quindi è antievolutivo, dato che il tempo di oggi non è più quello di duemila o di cinquemila anni fa. Oggi l’uomo dice “io” a se stesso e non si parla più come ieri, quando si diceva “l’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta...”, ecc., bensì casomai “Io glorifico... io esulto...”, ecc.
Perfino dire “Signore” sarebbe un tradimento oggi, o perlomeno un anacronismo: la parola greca “kyrios” per “signore” è una trascrizione esplicativa di “Yhwh”, che alcuni grammatici dicono essere una forma del verbo ebraico hawàh, che significa “divenire”, col significato di “egli fa divenire”, ed è usata non solo per il Signore (Cristo) ma anche per le persone. Quando è applicata a Cristo indica la sua gloria: perché chi “fa divenire” non è altro che l’io. In altre parole Cristo è il kyrios in quanto risorto. Ecco perché dall’anno zero in poi fu possibile riferire al Cristo tutti i passi delle prime traduzioni greche dell’Antico Testamento che trattano del kyrios. “Signore da chi andremo?” dice Pietro (Gv 6,68) rivolgendosi al Cristo. Ciò avveniva duemila anni fa, quando l’essere umano non indicava ancora se stesso col termine “io” ed aveva ancora bisogno della scuola di Delfi per sperimentare il “Conosci te stesso”.
In altre parole, l’uomo della seconda rivelazione arrivava a dire io a se stesso solo passando ancora attraverso le antiche scuole dei misteri. Ecco perché il tempio di Delfi portava la grande scritta “Conosci te stesso” al suo ingresso. Delfi simboleggiava il delfino, cioè il più intelligente dei pesci, corrispondente all’“Ictus” del protocristianesimo, stroncato dal “terminator” che fu la chiesa cattolica pietrina, la quale ricostruì, pietra su pietra, il bisogno del tempio materiale in un tempo in cui tale bisogno scemava perché l’io si incarnava nell’uomo a partire dal sangue sul Golgota, cioè sul “calvo” monte Calvario, simboleggiante il cranio umano. L’umanità della seconda rivelazione fu infatti quella del passaggio dal cuore alla testa. Ecco perché si dice che l’organo del pensare era anticamente il cuore.
Nella prima rivelazione l’uomo pensava col cuore e diceva “il mio cuore” per indicare se stesso. Nella seconda rivelazione incomincia a dire “io” sentendo la testa come ambito della propria attività interiore ed avvertendo progressivamente che le scuole dei misteri erano obsolete. Tant’è vero che il Cristo, riferendosi ad esse, dirà: “Non rimarrà pietra su pietra” (Mt 24,2). Infatti per il cristiano reale la chiesa cattolica è quella che non riconosce i tempi. E chi non va a tempo con lo spirito del tempo non può che essergli in abominio (Lc 19,44).
Ecco, fra l’altro, perché nel testo di “Papolatra song” canto “Non vai a tempo”. Non vi è nulla di più mortificante per me che dover spiegare i miei testi a questa umanità così arretrata, anche se ugualmente amata, dato che il suo arretramento è opera della chiesa, della quale non deve restare pietra su pietra, proprio perché è nocivo continuare così a rallentare l’evoluzione dell’io.
La seconda rivelazione ha fatto il suo tempo.
Oggi bisognerebbe fare i conti anche con la menzogna psicanalitica e/o cattolica rispettivamente del falso io e/o dell’ego. Questo vale soprattutto per i fissati della prima rivelazione, che si mettono ancora sulla fronte la palta del Gange, ma anche per coloro che non si schiodano dalla seconda, continuando a parlare del loro cuore, senza mai provare a ragionare anche con la testa.
Finché ogni teologia, o scienza, filosofia, dottrina, ideologia, ecc., accetterà tutti i possibili principi - come atomo, moto, materia, sentimento, fede, volontà, energia, io, ego, falso io, falso ego, ahamkara, ecc. - resterà campata in aria.
Lo stesso avvenne per esempio con la geologia: finché parlò di immaginarie rivoluzioni terrestri per spiegare lo stato attuale della terra, non poté che brancolare nel buio. Solo quando iniziò a prendere per punto di partenza lo studio dei fenomeni ancora presenti sulla terra e da questi fenomeni presenti poté ricavare conclusioni riguardo al passato, incominciò anche a procedere su un terreno solido.
Ovviamente ciò vale anche nel campo dell’evoluzione del mondo: solo quando l’individuo considererà l’assolutamente ultimo come suo primo, potrà arrivare alla meta.
E l’assolutamente ultimo a cui è pervenuta l’evoluzione del mondo è il pensare.
L’uomo confessionale delle prime due rivelazioni ha imparato dalla sua confessione religiosa a diffidare del pensare, quindi si attiene ferreamente ad uno o più principi come quelli accennati senza neanche accorgersi che tali dogmi di pensiero sono sempre pensieri pensati. Quindi diffida del pensare in nome di pensati. Sostanzialmente diffida della vita del Logos in nome della morte o della definizione (la definizione ha in sé la finizione e la fine o morte di ogni vita pensante). Si può essere più stupidi?
Non parlo solo della confessione cattolica ma di ogni confessione religiosa. Il devoto a Krishna, per esempio, diffida del “falso ego”, che denomina col termine sanscrito “ahamkara”, come se esistesse un “vero ego”, cioè non falso.
Il cattolico diffida dell’io inteso come “ego”…
Il devoto di Krishna diffida del “falso ego”.
Ma sono entrambi sullo stesso piano di antilogica.
Ambedue, il devoto di Krishna ed il catecumeno cattolico, anziché fare gli errori della geologia primitiva, dovrebbero per esempio dire a se stessi: se devo decidere di seguire l’“io” o il “Cristo”, il “falso ego” o il “vero ego”, i Vangeli o la Bagavad Gita, e così via, per scegliere di immettermi nell’una o nell’altra via, nell’io di Krishna o nell’io di Cristo, ci devo pensare. Quindi al primo posto devo, per forza di cose, mettervi il pensare.
Invece avviene quasi sempre che al pensare si sostituisca la dottrina, cioè un insieme di dogmi di pensiero da credere. In tal modo, il giudizio critico che inizialmente promuove tale sostituzione, è una scelta che si crede fatta una volta per tutte, e che si crede non abbisogni più di vita pensante. Qui sta l’errore: ci si sente illuminati dalla dottrina scelta, anziché dal pensare, che ne permise la scelta. Ma l’illuminazione priva di emancipazione del giudizio critico è menzogna.
Avviene così che si combatte continuamente per la dottrina, e non per il discernimento del pensare (giudizio critico), che mai dovrebbe terminare o essere rimosso dall’umano, dato che è l’elemento vitale che caratterizza l’umano.
Certamente ogni conflitto psichico è emancipazione, dato che nel bel mezzo della sofferenza c’è poi sempre un’illuminazione. Ma sofferenza e illuminazione non possono essere disgiunte rimuovendo il pensare. Possono essere disgiunte solo da chi afferma superficialmente e/o dogmaticamente tutto ed il contrario di tutto, come avviene per i seguaci di confessioni, senza avere compreso cosa alcuna.
Perfino chi diffida dell’io non può predicarne il distacco senza usare l’io, almeno come termine per indicare se stesso. Dal momento che dice “io” soffre. Ma soffre non a causa dell’io, come dice la sua dottrina contro l’ego o il falso ego, ma a causa dell’attaccamento a quell’anacronistica e quindi falsa dottrina dell’io.
Queste cose avrebbe dovuto e dovrebbe spiegare la chiesa per essere cristiana. Ma come fa un’istituzione a spiegare ciò che non ha mai sperimentato in sé? Non può.
Da prima del periodo storico in cui i primi scrittori dei testi su Krishna, Budda, i profeti, ecc., ma si potrebbe dire da sempre, le forze dell’io incominciarono ad incarnarsi sulla terra.
Tale incarnazione trovò il suo compimento (non definitivo) con l’evento del Golgota cioè due millenni fa, e sta ancora continuando nella misura in cui continuano a nascere bambini.
Quando il sangue del crocifisso feconda il nostro pianeta nel monte Calvario, l’uomo incomincia ad indicare progressivamente se stesso in prima persona singolare.
Prima di quel tempo, lo ripeto perché è importante, tendeva ad indicare se stesso in terza persona, esattamente come fanno gli infanti nei primi anni di vita. L’infante Mario Rossi per indicare se stesso dice “Mario”. Non dice ancora “io”. Incomincia a dire “io” verso il secondo o il terzo anno di età, non prima.
Anticamente l’io era conosciuto solo dagli iniziati. Se qualcuno mi chiede il tuo nome cosa rispondo? Il nome di Dio era appunto quello ricevuto da Mosè come rivelazione: “Eié escer Eié”, “Io sono l’Io sono”.
Questo “nome” è già un’intuizione del figlio dell’uomo, che non nasce da carne e sangue.
Nei tempi paleocristiani il “Figlio dell’uomo” era un nome tecnico per l’“io”, che in quanto parola è diversa da tutte le altre parole, inadatte ad evocare l’individualità. Io sono un “io” solo per me. Per tutti gli altri sono un “tu”. Non così per ogni altra parola.
Il figlio dell’uomo non nasce da carne e sangue, bensì dall’elemento spirituale dell’umanità la cui natura è tale che muove in sé la possibilità della scoperta dell’io. Qui - e non nell’imene - sta la verginità dell’umanità madre dell’io.
Quando il bambino, a un certo punto della sua infanzia dice “io” a se stesso, si tratta della vera e propria nascita verginale del “Figlio dell’uomo” da parte della natura umana e ciò era anche il senso della nascita del Cristo in quanto involucro (sinderesi) dell’“io sono” nell’uomo.
Vi è un rapporto di equivalenza fra la storia dell’individuo e quella dell’umanità.
Tanto nell’infanzia dell’umanità quanto in quella del bambino si passa dalla consapevolezza di sé in terza persona a quella in prima persona.
Chi osserva oggettivamente i testi antichi trova testimonianza di ciò. Si veda per esempio il ringraziamento del faraone Azoze (V dinastia, circa 2900 a.C.) al suo vizir Sepses-rie. Il faraone parla di se stesso sempre in terza persona singolare come gli infanti quando, prima di scoprire la parola “io”, indicano se stessi servendosi del proprio nome. Per indicare se stesso Azoze usa le parole “Azoze”, “la mia maestà”, “il cuore di Azoze”: «La mia maestà ha visto questo [...] è veramente rallegrato il cuore di Azoze con ciò [...] o Sepes-rie [...], quanto è vero che Azoze vive all’infinito, se chiederai subito per lettera alla mia maestà una ricompensa qualsiasi, la mia maestà la farà dare subito» (G. Farina, “Grammatica della lingua egiziana antica”, Ed. Hoepli, pag. 183 e 184).
Anche nei Vangeli si possono trovare tracce di questo modo antico di indicare l’io: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore…” (Luca, 1,46). In questo passo del “Magnificat”, l’evangelista non sostituisce l’io con “anima mia” e “mio spirito” per esercitare l’arte poetica, ma esattamente come era l’usanza dell’uomo antico di indicare se stesso in terza persona. Se l’antico pensatore dice “la mia anima considera che…” o “il mio cielo, cioè l’elemento in me celato considera che…”, non lo fa per essere più poetico o celestiale. Il motivo di questo modo di parlare degli antichi non è poetico. È semplicemente in armonia con lo stadio acquisito dalla sua evoluzione individuale.
La mancata conoscenza di questo sviluppo storico dell’autocoscienza - da parte del cattolicesimo e di ogni altra confessione religiosa, comportò purtroppo la nascita della psicanalisi, tentativo fallito di oggettivazione dell’io ai fini della sua individuazione ed evoluzione, dato che ancora oggi si tende a credere dogmaticamente nel Logos, anziché sperimentarlo in sé.
Eppure la chiesa cattolica non era forse preposta a promuovere in senso paolino la capacità dell’io di superare i condizionamenti dell’ego (“Non io ma il Cristo in me”, Gal. 2,20)?
L’omissione di questo compito ha determinato il fallimento della chiesa, già nel suo nascere come istituzione burocratica e poi costruita progressivamente pietra su pietra, e del cui elemento minerale è risaputo che non dovrà rimanere nulla (Mt. 24,2; Mc. 13,2; Lc. 21,6). Perché mai avrebbe dovuto essere istituita in tal modo dal Cristo se il Cristo sapeva che non avrebbe retto? È chiaro che la pietra di fondamento avrebbe dovuto essere immateriale, non materiale, vale a dire la pietra del riconoscimento dell’io (“Figlio dell’uomo”) o del Cristo dell’uomo Pietro nei confronti dell’uomo Gesù. Solo in tale rapporto fra un uomo e un altro uomo scatta la divinità del “Figlio dell’uomo”.
Ciò risulterà sempre più evidente alla coscienza degli esseri umani del terzo millennio. E non potrà essere rimosso.
Tanto Israele quanto Roma non riconobbero il Cristo, eppure ambedue giuridicamente pretesero essere il popolo eletto, ambedue ovviamente senza fare i conti col cielo.
Ciò che sempre più si paleserà sarà che, da un lato, tutta la storia di Israele proclama il monoteismo contro i caldei, studiosi degli astri e, dall'altro, che Roma continuò e continua a manifestare la stessa avversione per ogni logica celeste. Così, mentre il Vaticano continua a dimenticare l’antica “considerazione” celeste - peraltro testimoniata dallo spirito del linguaggio secondo il quale la parola “vaticano” proviene etimologicamente da “vaticinio” e da “vate”; e “considerare” da “sidera”, che in latino significa “stelle” - Israele continua a dimenticare che Abramo era per i Padri della tradizione ebraica, egli stesso un astrologo (Cfr. Midrash Hagadol, Ed. Schechter, I, 189 e sgg.), che “portava sul cuore una tavola astrologica, così che tutti i re d’oriente e d’occidente usavano recarsi presso di lui per consultarla” (A. Cohen, "Il Talmud", Ed. Laterza, Bari, 1935, pag. 329; cfr. anche la Tosefta Kiddushin 5,17, e il Talmud Bavli Baba Batra 16b.) e che anche Sara era astrologa (Deuteronomio Rabbah 4,5, rif. a Genesi 21,10.).
Ad ascoltare Roma ed Israele attuali, sembrerebbe proprio che l’uomo, per essere in regola (regola celeste) non debba ascoltare il “celato” che il “cielo” nasconde in sé, come residenza del divino.
Perciò a tutt’oggi nessuno pensa più a ciò che dice quando recita un Pater. Di che cielo si tratti nel “Padre Nostro” risulta così qualcosa di oscuro. Tale oscurantismo combatte infatti sia ciò che si cela esotericamente “in cielo come in terra”, sia il cielo dell’astrofisica! Pare proprio che nessuna di queste vie, che in fondo sono la medesima via al cielo, sia bene accetta dalle confessioni religiose.
Si prenda nella filosofia di Abram Charan De (dei devoti di Krishna) il cosiddetto “falso ego” denominato “ahamkara” consistente nella facoltà umana di dire “io”. Tale denominazione (“ahamkara”) riguardante la facoltà di dire “io”, non nel senso filosofico sankhya pre-Shankaracharia, è perfettamente giustificata anche oggi. Non si tratta infatti di inserire come si faceva nella terminologia sankia antica (precedente a Shankaracharia) l’“ahamkara” tra la vitalità (budhi) e la mente (manas) perché la costituzione umana di allora non percepiva ancora come oggi gli influssi egoistici (luciferici) ed economicistici (arimanici o di Belial o economicistici). Perciò l’io (“ahamkara”) e la mente (“manas”) anticamente caratterizzata come “senso dei sensi”, detto poi anche in Occidente “sesto senso”, oggi andrebbero pensati congiunti, così come possono esserlo l’io e la coscienza dell’io, dato che è sempre l’io ad avere “coscienza dell’io”.
L’insieme di questi due contenuti concettuali è l’io, in senso spirituale, cioè immateriale, quindi diverso dal suo identificarsi con la mineralità del corpo.
Oggi è giustificato fare così. Perché per l’uomo d’oggi è possibile riassumere le diverse impressioni sensoriali in un unico senso interiore complessivo: questo vale sia per le impressioni sensoriali relative al mondo esterno (per es., i colori “freddi” o “caldi”, i suoni che richiamano impressioni cromatiche, ecc.), sia per le esperienze interiori (per es., sentimenti “luminosi” o “oscuri”, uno sguardo “raggelante”, un ideale che “riscalda” il cuore, ecc.) pur rendendosi conto che si tratta di un’espressione figurata. Infatti il caldo e il freddo lo percepiamo solo mediante il senso del tatto, e mediante la vista percepiamo solo colori, chiaro o scuro. Quando parliamo di colori caldi o freddi, lo facciamo applicando le percezioni di un senso a quelle di altro, grazie a una certa intima affinità che sentiamo. Ci esprimiamo così perché nella nostra attività interiore una certa percezione visiva si fonde con qualcosa che percepiamo mediante il senso del calore. Persone con particolare sensibilità possono risvegliare in sé rappresentazioni di colori mentre percepiscono determinati suoni, così che possono parlare di suoni che destano in loro la rappresentazione del rosso, o di altri suoni che risvegliano la rappresentazione dell’azzurro, e cos’ via. Nella nostra attività interiore vive qualcosa che collega tra loro le singole percezioni sensoriali, fondendole in un tutto unico. Si può andare anche oltre, se si è sensitivi. Ci sono persone che, visitando diverse città, ricevono impressioni che caratterizzano in sé come di una città gialla, o rossa, o bianca, o azzurra…
Invece ciò che si intendeva anticamente con “ahamkara” era una forma individualizzata di auto percezione di sé non ancora interiormente condensata.
Oggi, dopo Shankaracharya (ottavo secolo dopo Cristo), col termine “ahamkara” si intende invece l’io come condensazione immateriale ma concreta del cosiddetto “senso dei sensi” o “manas”.
Dal “manas” provengono foneticamente termini come “manna”, “mente”, “Minotauro”, “Minosse” (il labirinto di Arianna in cui ci si può perdere incontrando il mostro è appunto la mente umana), “man”, “men”, e perfino “money”, la “moneta”, come espressione del valore che l’uomo da’ a una merce, e così via.
Secondo Shankaracharya il “manas” e l’io spirituale si potevano infatti identificare.
Ciò non era invece possibile secondo la terminologia sankhya.
Ciò premesso, ed anche in base alla stessa terminologia sanscrita, l’avversione all’io, all’“ego”, o al “falso ego” è ingiustificata.
E fino a prova contraria è ingiustificato oggi ogni spirito di avversione all’io.
Tale spirito di avversione all’io è lo spirito di Belial (Arimane nella scienza spirituale o Satana nei Vangeli, da non confondere con Lucifero). Tale spirito arimanico genera pseudo spiritualismo tanto nell’attuale chiesa cattolica quanto in ogni altra confessione religiosa o partitica e/o associazione falsamente spirituale, in cui si opera dando preminenza all’Ethos rispetto al Logos, per esempio nelle dottrine che insegnano l’illusorio altruismo della trasformazione dell’“io” nel “noi”. Infatti è impossibile pretendere magicamente dalla recita delle parole “liberaci dal male” rivolte al “Padre nostro” una liberazione dall’“io” inteso come male o come egoismo, rimuovendo l’io. Se rimuovo l’io in nome del “noi”, come faccio a scegliere fra l’“io” e il “noi”? Se rimuovo il Logos in nome dell’Ethos o della Legge, come faccio a creare logicamente leggi etiche?
La conoscenza che non è contemporaneamente saggezza e via di liberazione (moksa), è nozionismo, dogmatismo, regola imposta, e “imposta” da pagare in modo tassativo, schiavizzante e illogico.
Proprio perché per l’antica e profonda saggezza radicata nel samkhya e nello yoga che passò poi alla conoscenza non dualista del Vedanta, la molteplicità e la separazione delle cose percepibili erano un prodotto del nostro apparato psichico, della mente empirica - distintiva e analitica - che gli indiani chiamavano ahamkara e abhimana, proprio per distinguerla dall’io profondo, cioè dall’atman che si nasconde nella “grotta” più interna e più profonda di ogni uomo, proprio per queste cose, oggi l’individualità dovrebbe essere intesa come “ahamkarana”, cioè caratterizzata dall’“ahamkara”.
Se invece, in nome magari dell’“impermanenza” filosofica degli antichi, si elimina l’io, non si va da nessuna parte, dato che l’io è eterno.
Ecco perché il Logos dichiara: “Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5) ripetendo continuamente di “permanere” in Lui (Gv. 15 4-10).
Ed ecco che eliminando l’io in nome del Logos si è costretti a credere in un Logos posto fuori dall’io mentre in realtà è sia dentro che fuori. È dentro in quanto involucro protettivo dell’io. Ed è fuori in quanto presente dappertutto e soprattutto nell’io che bisognerebbe riconoscere in ogni creatura umana affinché possa crearsi ogni volta una “pietra” immateriale per una “qaal” immateriale, cioè sostanziata dal pensare contenente il Logos, quindi del tutto diversa da quella della quale il Logos dichiara: “non rimarrà pietra su pietra” (Mt. 24,2; Mc. 13,2; Lc. 21,6).
Chi parla di “falso ego” o diversifica il Logos divino dal Logos umano è ancora inchiodato alle prime due rivelazioni. La diversità di cui parla è oggi una menzogna creata dalla sua ignoranza in quanto dipende dalla non coscienza del contenuto superiore dell’io. Ovviamente non si tratta di coscienza filosofica, né culturale, né razionale, ma di esperienza dell’io, che solo nella terza rivelazione si può avere, ed oggi, appunto, la si può avere, anche se solo per attimi, per esempio leggendo un libro, o osservando un dipinto, intuendo l’immaginativa morale di cui parla Steiner, ecc., cioè facendo vivere in una zona di noi stessi la potenza dell’io e traducendola immaginativamente in un’azione interiore, che divenga anche un’azione esteriore. L’io è sempre nuovo e non avrebbe neppure bisogno di essere descritto, ma è certo che la sua forza è quella Logos, che è uno.
Filosoficamente si potrebbe dire che quanto più c’è individualismo, tanto più c'è egoismo. Invece è vero il contrario. Quanto più l’individuo si congiunge al nucleo puro del proprio essere individuale, tanto più si congiunge con l’io cosmico. Quindi, quanto più si è se stessi, tanto più si partecipa dell’io cosmico. Questo è logodinamica di libertà, ed è meraviglioso, perché non ci sono regole esteriori o eterodirette per il rapporto di noi con noi stessi: qui non abbiamo regole se non ciò che viene dall’intuizione continua dell’immediata situazione, dell’immediato evento, dell’immediato problema. L’errore dell’uomo è voler ricordare quello che ha già fatto e applicarlo all’esperienza che si presenta. Far tesoro delle esperienze non è questo, ma avvicinarsi all’esperienza presente consapevoli che essa richiede il contenuto interiore che la riguarda, e che quindi è forza viva, contenuto vivo di qualsiasi evento si verifichi, il quale non evolve se non c’è questo sempreverde atto di coraggio.
L'atto di coraggio è necessario ai tempi nuovi, perché tutte le soluzioni che si danno oggi dei problemi sono fallimenti certi, e terribili, in quanto in genere si attinge alla riserva delle ideologie o della morale a cui si è legati. Sono rari coloro che vivono la possibilità di intuizioni diretta di ciò che andrebbe fatto. Certo non lo dobbiamo pretendere dalle folle, specialmente dalle folle dei papolatri decerebrati.
Da noi stessi però dovremmo pretenderlo.
Il Cristo avanza comunque malgrado la non consapevolezza di molti.

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