Appendice 2ª - Il comparire dei “confini della conoscenza”

Tra i pensatori che tendono energicamente a un rapporto con la vera realtà, così come esso viene richiesto dalla natura interiore dell’uomo, si fanno molte discussioni sui confini della conoscenza che sono descritti verso la fine del primo capitolo di questo libro; considerando il tipo di tali discussioni, si può ben notare come l’urto, che autentici pensatori sperimentano contro detti “confini”, spinge nella direzione di intime esperienze dell’anima di cui si parla appunto nel primo capitolo. Si veda come il geniale Friedrich Theodor Vischer, nel valido articolo che scrisse sul libro di Johannes Volkelt “Traumphantasie” [“Der Traurn. Eine Studie zu der Schrift: Die Traumphantasie von Dr. Johannes Volkelt”, op. cit. - ndc], descrive l’esperienza di conoscenza che ebbe di un simile confine: “Nessuno spirito, dove non c’è centro nervoso, dove non c’è cervello, dicono gli oppositori. Nessun centro nervoso, nessun cervello che non sia stato preparato dal basso in innumerevoli fasi; è facile parlare ironicamente di un rumoreggiare sotterraneo dello spirito nel granito e nel calcio; non più difficile di quanto sarebbe per noi chiedere canzonatoriamente come la proteina cerebrale trasvoli in idee. Alla conoscenza umana viene meno la misura delle differenze di fasi. Resterà un mistero come avvenga che la natura, sotto la quale lo spirito deve pur essere assopito, se ne stia lì come contraccolpo perfetto dello spirito, tanto che inciampandovi ci facciamo bernoccoli; è una separazione di tale apparenza dell’assolutezza che, con l’essere altro e l’essere fuori da sé di Hegel, per quanto geniale nella formula, pure non è detto quasi nulla, e la durezza dell’apparente parete divisoria è semplicemente coperta. Si trova in Fichte il giusto riconoscimento del taglio e dell’urto in questo contraccolpo, ma senza spiegazione” (cfr. Friedrich Theodor Vischer, “Altes und Neues”, 1881, primo capitolo, pago 229 e seg.). Friedrich Theodor Vischer richiama acutamente l’attenzione su un punti su cui anche l’antroposofia deve rimandare. Ma non comprende che in un simile confine della conoscenza può subentrare un’altra forma di conoscenza. Vorrebbe vivere anche lì con lo stesso tipo di conoscenza che aveva prima di quei limiti. L’antroposofia cerca di mostrare che la scienza non finisce dove il conoscere abituale si procura “bernoccoli”, dove si trovano questi “tagli” e questi “urti” nel contraccolpo della realtà, ma che le esperienze a seguito di tali “bernoccoli”, “tagli” ed “urti” portano allo sviluppo di un conoscere di altro tipo che trasforma il contraccolpo della realtà in percezione spirituale e che da principio, al suo primo gradino, si può paragonare alla percezione del tastare dell’ambito sensibile.

Nella terza parte di “Altes und neues” (pag. 224), Friedrich Theodor Vischer dice: “Bene, un’anima accanto al corpo non c’è (e intende per i materialisti); proprio quello che noi chiamiamo materia diventa quindi anima nel grado più alto a noi noto della sua strutturazione: nel cervello; e l’anima si evolve in spirito. Si tratta di sviluppare un concetto che per l’intelletto analitico è una pura contraddizione”. Rispetto all’esposizione di Vischer l’antroposofia deve ancora dire: bene, vi è una contraddizione per l’intelletto analitico, ma per l’anima la contraddizione diventa il punto di partenza di un conoscere davanti al quale l’intelletto analitico si ferma, perché sperimenta il “contraccolpo” della realtà pirituale.

Gideon Spicker [1840-1912, teologo e filosofo - ndc], che oltre a una serie di acuti scritti ha anche pubblicato “Philosophisches Bekenntnis eines ehemaligen Kapuziners” (1910) [“Am Wendepunkt der christlichen Weltperiode. Philosophisches Bekenntnis eines ehemaligen Kapuziners”, Stuttgart 1910 - ndc], con parole che sono davvero abbastanza energiche richiama l’attenzione su uno dei punti di confine del conoscere abituale (a pag. 30): “In ogni qualunque filosofia ci si riconosca: nella dogmatica o nella scettica, nell’empirica o trascendentale, nella critica o eclettica, tutte senza eccezione prendono le mosse da un principio non dimostrato e non dimostrabile, e cioè dalla necessità del pensare. Prescindendo da questa necessità non è possibile alcuna ricerca, per quanto approfondita possa essere. Essa va accettata incondizionatamente, e non la si può fondare su nulla; ogni tentativo di volerla giustificare già la presuppone. Sotto di essa si spalanca un enorme abisso, un’oscurità spaventosa, da nessun raggio di luce illuminata. Non sappiamo quindi da dove essa giunga, né dove essa conduca. Se un Dio benevolo o un demone maligno l’abbia posta nel senno, l’una cosa e l’altra sono incerte”. Quindi pure l’osservare il pensare stesso conduce il pensatore a un confine del conoscere abituale. Col suo conoscere l’antroposofia inizia al confine; sa che davanti all’arte del pensare razionale c’è la necessità come un muro impenetrabile. Per il pensiero vissuto l’impenetrabilità del muro scompare; tale pensiero trova una luce per illuminare vedendo “l’oscurità” del pensiero solo razionale “da nessun raggio di luce illuminata”: e “l’abisso senza fondo” è tale solo per il regno dell’essere sensibile: chi non si ferma dinanzi a questo abisso, ma corre il rischio di procedere oltre col pensiero, anche quando questo deve spogliarsi di ciò che il mondo sensibile gli ha immesso, trova nell’“abisso senza fondo” la realtà spirituale.

Così si potrebbe proseguire, senza prevederne una fine, con la presentazione delle esperienze che seri pensatori hanno ai “confini della conoscenza”. Da simili presentazioni si desumerebbe che l’antroposofia si pone come risultato oggettivo dell’evoluzione del pensiero dell’epoca moderna. Molto richiama l’attenzione su di essa, quando questo molto sia visto nella giusta luce.