III
FRANZ BRENTANO
IN MEMORIA

Non è possibile parlare del rapporto tra antropologia e antroposofia in forma adeguata, per i motivi esposti nel capitolo precedente di questo scritto in merito al libro di Max Dessoir “Al di là dell’anima”. Credo però che questo rapporto diventerà evidente, mettendo qui quanto ho scritto con altra intenzione, e cioè in memoria del filosofo Franz Brentano, morto a Zurigo nel marzo 1917. Il decesso dell’uomo da me massimamente stimato ha fatto sì che la notevole opera di tutta la sua vita mi si presentasse rinnovata davanti all’anima, inducendomi ad esprimermi come qui dico.

*

Mi pare di poter fare il tentativo di pervenire ad una visione d’insieme di tutta l’opera filosofica di Franz Brentano, dal punto di vista antroposofico, ora che la morte dell’uomo venerato ha interrotto la prosecuzione di quest’opera. Credo che il punto di vista antroposofico non possa farmi cadere in una valutazione unilaterale della concezione del mondo brentaniana. Lo suppongo per due motivi. In primo luogo perché nessuno può accusare il tipo di rappresentazione di Brentano di avere la benché minima tendenza verso una direzione antroposofica. Se egli stesso avesse avuto l’opportunità di esprimere un giudizio in proposito, l’avrebbe respinta con la massima decisione. In secondo luogo perché, dal mio punto di vista antroposofico, sono nella condizione di portare incontro alla filosofia di Franz Brentano una stima senza riserve.

Per quanto riguarda il primo motivo, credo di non sbagliare dicendo che il Brentano, se fosse giunto a un giudizio sull’antroposofia da me intesa, l’avrebbe formulato simile a quello che espresse sulla filosofia di Plotino. Come nei confronti di questa, avrebbe detto anche dell’antroposofia: “Buio mistico e un libero vagare della fantasia in regioni sconosciute” (Franz Brentano, “Was für ein Philosoph manchmal Epoche macht”, Hartleben, Wien-Pest-Leipzig 1876, pag. 14). Come col neoplatonismo, anche nei confronti dell’antroposofia avrebbe ammonito alla prudenza, “per non perdersi nei passaggi labirintici di una pseudofilosofia, adescati da una chimerica apparenza” (ibid., pag. 32). Sì, avrebbe forse trovato il modo di pensare dell’antroposofia troppo dilettantesco, anche solo per riconoscerla degna di attenzione tra le filosofie sulle quali egli giudicava, come su quelle di Fichte, Schelling, Hegel. Nel suo discorso inaugurale a Vienna disse di esse: “Forse anche il tempo ultimo scorso fu un’epoca di decadenza, in cui tutti i concetti sfumavano opachi l’uno nell’altro, e non si poteva più trovare traccia di un metodo aderente ai fatti” (cfr. la pubblicazione del discorso tenuto nel 1874 in occasione dell’assunzione della sua cattedra all’Università di Vienna: “Über die Gründe der Entmuthigung aut philosophischem Gebiete”, Wien 1874, pago 18). Credo che il Brentano avrebbe giudicato così, sebbene io naturalmente non solo ritenga questo giudizio del tutto infondato, ma anche ingiustificato ogni accostamento dell’antroposofia alle filosofie a cui probabilmente questo filosofo l’avrebbe accomunata.

Per quanto concerne il secondo dei motivi sopra dati, il confrontarmi con la filosofia brentaniana, posso riconoscere che essa appartiene per me alle opere più avvincenti del presente nella ricerca sull’anima. Potei invero ascoltare solo poche delle lezioni viennesi del Brentano, circa trentasei anni fa; ma da allora ho seguito la sua attività di scrittore con la più viva partecipazione. Purtroppo le sue pubblicazioni uscivano ad intervalli di tempo troppo grandi per il mio desiderio di apprendere su di lui. Per lo più esse erano scritte in modo che attraverso di esse, solo come attraverso occasionali aperture, si guardava in uno spazio pieno di tesori; attraverso pubblicazioni occasionali si guardava così in un ampio regno di pensieri, non resi pubblici, che l’uomo eminente portava in sé. Portava tanto in sé, da mirare ad un continuo perfezionamento verso alte mete conoscitive. Quando dopo una lunga pausa nel 1911 vennero pubblicati il libro del Brentano su Aristotele, il suo splendido scritto “La dottrina di Aristotele sull’origine dello spirito umano” e la ristampa della parte più importante della sua “Psicologia” con le “Appendici” così perspicaci, la lettura di questi scritti fu per me una successione di gioie (cfr. di Franz Brentano, “Aristoteles und seine Weltanschauung”, Quelle und Meyer, Leipzig 1911; Franz Brentano, “Aristoteles’ Lehre vom Ursprung des menschlichen Geistes”, Veit und Comp., Leipzig 1911; Franz Brentano, “Von der Klassifikation der psychischen Phänomene”, Duncker und Humblot, Leipzig 1911).

Di fronte a Franz Brentano mi sento pervaso da un sentimento che credo di poter dire si acquisti quando la convinzione scientifica ottenuta partendo dal punto di vista antroposofico afferra appunto il sentimento. Mi sforzo di capire a fondo le sue concezioni nel loro valore, pur non facendomi alcuna illusione sul fatto che egli avrebbe potuto, anzi avrebbe dovuto pensare sull’antroposofia nel senso sopra accennato. Davvero non ne parlo qui per cadere puerilmente in una futile autocritica dei miei sentimenti verso concezioni contrarie o divergenti, ma piuttosto perché so quanta mala-comprensione dei miei giudizi su altri indirizzi spirituali abbia portato il fatto che io mi sia spesso espresso nelle mie pubblicazioni conseguentemente a questo sentimento.

Penetrando con metodo la ricerca brentaniana sull’anima, mi si manifestano i pensieri base che lo guidarono nel 1868 alla formulazione della sua dottrina. Quando assunse la sua cattedra di professore di filosofia a Würzburg, pose il suo modo di rappresentazione alla luce della tesi: la vera ricerca filosofica non può avere un modo diverso da quello ammesso dalla conoscenza scientifica. “Vera philosophiae methodus nulla alia nisi scientiae naturalis est” [“Il vero metodo della filosofia è null'altro che quello delle scienze naturali”; Steiner si espresse sulla formazione di questa massima nella conferenza che tenne nel 1892 nella Società filosofica viennese, e che fu stampata col titolo “Über die Zukunft der Philosophie”, Alfred Hölder, Wien 1893; cfr. a pag. 3 il richiamo successivo di Franz Brcntano alla sua tesi cui qui ci si riferisce; quando poi Brentano fece pubblicare nel 1874 il primo volume del suo “Psicologia dal punto di vista empirico” (“Psychologie vom empirischen Standpunkte”, vol. I, Duncker und Humblot, Leipzig 1874), nel periodo in cui prese la sua cattedra a Vienna, cercò di presentare scientificamente le manifestazioni dell’anima secondo tale massima - ndc]. Per me ciò che Brentano ha voluto con questo libro, e ciò che da questo volere è venuto alla luce con le sue pubblicazioni durante la sua vita, costituisce un importante problema scientifico. Brentano aveva previsto (risulta dal suo libro) una serie di libri per la sua psicologia. Aveva promesso di far pubblicare il secondo poco tempo dopo il primo. Non è uscito alcun seguito alle idee solo iniziali della sua psicologia, contenute nella prima parte. Quando nel 1889 fece pubblicare la conferenza tenuta alla Società giuridica viennese “L’origine della conoscenza morale” scrisse nella prefazione: «Ci si sbaglierebbe, se si considerasse la conferenza un lavoro d’occasione, fatto in fretta per un impulso casuale. Essa offre i frutti di annose riflessioni. Fra tutto ciò che ho pubblicato sino ad ora sono i prodotti più maturi di quanto ho dibattuto. Essi fanno parte della cerchia di pensieri di una “Psicologia descrittiva” che, come oso ora sperare, potrò tra non molto rendere pubblica nella sua intera estensione. Si potrà allora riconoscere a sufficienza dall’ampio distacco preso da tutta la tradizione e soprattutto anche dai sostanziali perfezionamenti delle concezioni sostenute nella Psicologia dal punto di vista empirico, che nel mio lungo ritiro letterario non sono appunto stato inoperoso» (Franz Brentano, “Vom Ursprung sittlicher Erkenntnis”, Duncker und Humblot, Leipzig 1889, pag. V segg.). Anche questa “Psicologia descrittiva” non è uscita. Gli apprezzatori della filosofia brentaniana, studiando le “Ricerche per una psicologia dei sensi”, uscite nel 1907, riferite a un ambito ristretto, possono valutare quale profitto essa avrebbe loro portato (Franz Brentano, “Untersuchungcn zur Sinnespsychologie”, Duncker und Humblot, Leipzig 1907).

Ci si può porre la domanda: che cosa ha portato Brentano a trattenersi sempre di nuovo dal continuare le sue pubblicazioni, anzi a non pubblicare ciò che credeva sarebbe stato pronto in breve tempo? Confesso di aver letto con la più profonda commozione nell’elogio per la morte di Franz Brentano le parole che Alois Höfler ha fatto pubblicare nel maggio 1917: “Continuava a lavorare al suo problema principale: la dimostrazione dell’esistenza di Dio, così fiducioso che pochi anni fa un caro amico di Brentano, un ottimo medico viennese, mi raccontò che Brentano gli aveva poco tempo prima assicurato che nel giro di poche settimane avrebbe concluso la dimostrazione dell’esistenza di Dio...” (in “Süddeutsche Monatshefte”, maggio 1917, l’articolo “Franz Brentano in Wien”, a pag. 319 segg.). Provai la tessa cosa quando venni a sapere da un’altra memoria (di Utitz) (apparsa nella “Vossische Zeitung”) [il citato apparve nella “Vossische Zeitung” del 25/3/1917 dal titolo: “Franz Brentano, Erinnerungen an einen merkwürdigen Weisen” - ndc]: “Il lavoro che egli amava più appassionatamente, di cui si occupò per tutta la sua vita, è rimasto non pubblicato”. Mi pare che i destini di Brentano con le sue previste pubblicazioni pongano un grave problema scientifico-spirituale. Ci si avvicinerà ad esso solo considerando nella sua singolarità ciò che egli poté comunicare al mondo.

Ritengo importante tener presente che Brentano nella sua ricerca psicologica vuole porre a fondamento, in modo sagace, una pura rappresentazione di ciò che l’animico realmente è. Si chiese: che cos’è caratteristico in tutti gli eventi che si devono considerare animici? E trovò quello che così espresse nelle appendici alla psicologia nel 1911: “Il caratteristico per ogni attività psichica consiste, come credo di aver mostrato, nel rapporto con qualcosa come oggetto” (si veda a pag. 122 del già citato “Von der Klassifikation der psychischen Phänomene”). Rappresentare è un’attività psichica. Il caratteristico è che io non solo rappresento, ma che rappresento qualcosa, cioè che la mia rappresentazione si rapporta a qualcosa. Con un’espressione presa dalla filosofia medioevale Brentano definisce questa peculiarità dei fenomeni animici “rapporto intenzionale”. “La nota caratteristica”, così espone in un altro punto, “comune a tutto lo psichico consiste in ciò che spesso con un’espressione purtroppo molto equivocabile si è chiamato coscienza, e cioè in un atteggiamento soggettivo, in un rapporto, come lo si è definito, intenzionale con qualcosa che forse non è reale, ma che pure è dato interiormente come oggettivo. Nessun udire senza qualcosa di udito, nessun credere senza qualcosa di creduto, nessuno sperare senza qualcosa di sperato, nessuna tensione senza qualcosa a cui tendere, nessuna gioia senza qualcosa di cui gioire, e così per il resto” (Franz Brentano, “Vom Ursprung sittlicher Erkenntnis, pag. 14; in merito al rapporto intenzionale: “Psychologie vom empirischen Standpunkte”, a pag. 115 segg.). Questo interiore essere intenzionale è ora di fatto qualcosa che, come un motivo conduttore, fa sì che tutto ciò che gli si può attribuire sia riconosciuto nella sua natura animica.

Ai fenomeni psichici Brentano contrappone quelli fisici: colori, suono, spazio e molti altri. Trova che questi si differenziano dagli altri proprio perché un rapporto intenzionale non è loro caratteristica. E si limita ad assegnare questo rapporto ai fenomeni psichici, negandolo a quelli fisici. Ora però, quando si impara a conoscere il modo di vedere di Brentano sul rapporto intenzionale, proprio questo comporta ladomanda: un simile punto di vista non rende necessario esaminare anche il fisico partendo da lì? Chi infatti indaga il fisico come Brentano fa in questo senso per l’elemento psichico, cercando un elemento comune, trova che ogni fenomeno di quel campo si da’ grazie a qualcos’altro. Se un corpo si scioglie in un liquido, questo fenomeno si manifesta nel corpo disciolto grazie al suo rapporto col liquido solvente. Quando il fosforo cambia il suo colore per effetto del sole, questo si mostra nella stessa direzione. Tutte le proprietà del mondo fisico si danno attraverso i rapporti reciproci delle cose. Per l’esistenza fisica è giusto, quando Moleschott dice [non sono riuscito finora a ritrovare la frase citata nel testo - ndc]: “Tutto ciò che è, lo è attraverso proprietà. Ma non vi è alcuna proprietà che non esista per mezzo di un rapporto” (questo è stato esposto in modo particolarmente pregnante da Richard Wallascheck in un importante articolo del settimanale viennese “Die Zeit”, nn, 96 e 97 dell’anno 1896, 1° ed 8 agosto). Come tutto lo psichico contiene in sé qualcosa attraverso cui indica qualcosa di dato fuori di sé, così al contrario il fisico è tale che ciò che esso è, lo è attraverso il rapporto su di esso di qualcosa di esterno. Chi come Brentano sottolinei in modo così sagace il rapporto intenzionale di tutto l’animico, non dovrebbe forse rivolgere l’attenzione anche a ciò che è caratteristico dei fenomeni fisici, e che risulta , mediante quel medesimo svolgimento di pensieri? Pare almeno sicuro che un simile esame dell’animico possa trovare il suo rapporto col mondo fisico solo quando prenda in considerazione ciò che è caratteristico (cfr. alla fine di questo libro il settimo ampliamento: “La distinzione dell’animico dall’extra-animico ad opera di Franz Brentano”).

Brentano trova tre tipi di rapporti intenzionali nella vita dell’anima. Il primo è il rappresentarsi qualcosa; il secondo l’accoglimento o il rifiuto che si esprimono nel giudicare; il terzo l’amore o l’odio che vengono sperimentati nel sentire. Quando dico: Dio è giusto, mi rappresento così qualcosa; ma ancora non accetto o rifiuto tale rappresentazione; quando però dico: un Dio esiste, accolgo così la rappresentazione attraverso un giudizio. Se io dico: la gioia mi è cara, non giudico semplicemente, ma sperimento un sentimento. Su tali premesse Brentano distingue tre classi fondamentali di esperienze psichiche: rappresentare, giudicare, sentire (o le manifestazioni dell’amore e dell’odio). Pone queste tre classi fondamentali al posto di una suddivisione dei fenomeni psichici riconosciuta da altri in: pensare, sentire e volere (Cfr. di Franz Brentano, “Psychologie vom empirischen Standpunkte”, pag. 233 segg., e “Von der Klassifikation der psychischen Phänomene”). Mentre cioè molti comprendono rappresentare e giudicare in un’unica classe, Brentano li separa. Non è d’accordo con chi li unisce, perché non vede come altri nel giudizio solo un collegamento di rappresentazioni, ma appunto un accoglimento o un rifiuto del rappresentato, non dati nel semplice rappresentare. In cambio sentimento e volontà, che altri separano, per Brentano cadono insieme, dato il loro contenuto animico. Quanto è sperimentato con l’anima, mentre ci si sente trascinati a compiere un’azione o trattenuti dal farla, è lo stesso di ciò che si sperimenta quando ci si sente trascinati alla gioia o respinti dal dolore.

È evidente dagli scritti del Brentano che egli attribuisce una grande importanza all’aver sostituito la suddivisione da lui prima trovata delle esperienze dell’anima in pensare, sentire e volere, con quella in rappresentare, giudicare e amare e odiare. A partire da questa suddivisione cerca di aprirsi una via verso la comprensione di ciò che da un lato è la verità, e dall’altro il bene morale. La verità poggia per lui sul retto giudicare; il bene morale sul retto amare. Egli trova: “Chiamiamo qualcosa vero, quando l’accoglimento ad esso relativo è giusto. Chiamiamo qualcosa buono, quando l’amore ad esso relativo è giusto” (Franz Brentano, “Vom Ursprung sittlicher Erkenntnis”, pag. 17).

Nelle esposizioni del Brentano si può trovare che lui, col giusto accogliere il giudizio sulla verità, e col giusto sperimentare l’amore nel bene morale, vede acutamente e circoscrive un fatto animico. Ma nell’ambito dei suoi pensieri non si trova nulla che possa bastare a trovare il passaggio dall’esperienza animica del rappresentare a quella del giudicare. Quand’anche si guardi a fondo in questo ambito di pensieri, sì cerca invano la risposta alla domanda: di che cosa mai si tratta quando l’anima è cosciente di non farsi solo una rappresentazione, ma di essere determinata ad accogliere anche l’oggetto della rappresentazione mediante un giudizio?

Altrettanto poco si può evitare una domanda sul giusto amore per il bene morale. All’interno di quel campo che Brentano circoscrive come “animico”, per il comportamento morale non si trova assolutamente alcun altro fatto che il giusto amore. Ma non è caratteristico di un’azione morale anche un rapporto col mondo esterno? Ciò che caratterizza una simile azione per il mondo, può esaurirsi nel fatto che si dica: è un’azione giustamente amata? (si veda alla fine di questo libro il quinto ampliamento: “Sul reale fondamento del rapporto intenzionale”).

Seguendo il corso dei pensieri di Franz Brentano si ha in generale il sentimento: sono sempre pensieri fruttuosi, perché affrontano un problema con acutezza e con avvedutezza scientifica; ma si sente anche che Brentano con simili corsi di pensiero non conduce a quella meta promessa dai suoi punti di partenza. Un sentimento analogo si può anche imporre quando si confronti la sua tripartizione della vita dell’anima in rappresentare, giudicare, amare e odiare con l’altra in pensare, sentire e volere. Si segue con una certa approvazione quello che egli sa portare a sostegno della sua opinione; eppure alla fine si può quasi arrivare alla convinzione che egli apprezzi abbastanza tutti i motivi che parlano a favore dell’altra. Come esempio particolare, si prenda solo la conclusione che Brentano trae dalla sua partizione per la caratterizzazione del vero, del bello e del buono. Chi ripartisce la vita dell’anima in pensare, che è alla base del conoscere, in sentire e in volere, difficilmente potrà fare altro che mettere in stretta correlazione il tendere alla verità col pensare, lo sperimentare il bello col sentire, ed il compiere il bene col volere. Alla luce dei pensieri brentaniani la cosa appare diversa. Lì le rappresentazioni come tali non hanno alcun rapporto reciproco attraverso cui la verità come tale si possa già manifestare. Se l’anima tende ad una perfezione nel rapporto tra rappresentazioni, il suo ideale non può essere la verità, ma piuttosto la bellezza. La verità non si trova sulla via del semplice rappresentare, ma sulla via del giudicare. Ed il bene morale non si trova come un’essenza del volere, ma è il contenuto di un sentire: infatti amare giustamente è esperienza di sentimento (Franz Brentano, “Psychologie vom empirischen Standpunkte”, pag. 340., e “Von der Klassifikation der psychischen Phänomene”, pag. 110, nonché quantodice a pag. 17 e segg. nel suo “Vom Ursprung sittlicher Erkenntnis”).

Ma per la coscienza abituale la verità può essere solo cercata nel conoscere che si avvale di rappresentazioni. Infatti, anche se il giudicare che porta alla verità non si esaurisce in un semplice collegamento di rappresentazioni, ma poggia su un accoglimento o su un rifiuto delle rappresentazioni, accoglimento o rifiuto possono essere sperimentati dalla coscienza solo in rappresentazioni. Se anche le rappresentazioni, attraverso cui qualcosa di bello si presenta alla coscienza, si manifestano in certo modo all’interno della vita di rappresentazione, la bellezza è pur sperimentata tramite il sentimento. E malgrado un bene morale debba suscitare nell’anima un giusto amare, sua essenza è tuttavia la realizzazione per mezzo del volere, di ciò che è amato giustamente.

Si afferra ciò che si trova nei pensieri del Brentano sulla tripartizione della vita dell’anima solo quando si capisce che egli parla di tutt’altro, rispetto a quelli che suddividono in pensare, sentire e volere. Questi vogliono semplicemente descrivere l’esperienza della coscienza abituale, ed essa sperimenta se stessa, nell’estrinsecarsi, diverso uno dall’altro, di pensare, sentire e volere. Che cos’è sperimentato veramente? Nel mio libro “Gli enigmi dell’uomo” cercai di rispondere a questa domanda, e così riassunsi i risultati esposti: “Inizialmente lo sperimentare dell’anima nell’uomo, così come si manifesta nel pensare, sentire e volere, è legato agli strumenti del corpo, e si configura secondo questi. Chi però crede di vedere la reale vita dell’anima quando ne osserva le manifestazioni attraverso il corpo, cade nello stesso errore di chi crede che la sua figura sia prodotta dallo specchio davanti a cui si trova, dato che lo specchio contiene le condizioni necessarie, grazie alle quali appare la sua immagine. Quest’immagine dipende persino entro certi limiti dalla forma dello specchio, e così via: ma ciò che rappresenta non ha niente a che fare con lo specchio. La vita dell’anima umana, per realizzare pienamente il suo essere all’interno del mondo sensibile, deve avere un’immagine del proprio essere. E deve averla nella coscienza, altrimenti avrebbe sì un’esistenza, ma nessuna rappresentazione, nessun sapere della sua esistenza. L’immagine che vive nella coscienza abituale dell’anima è quindi completamete condizionata dagli strumenti del corpo. Senza questi non esisterebbe, così come l’immagine dello specchio senza lo specchio. Ciò che però appare attraverso l’immagine, l’animico stesso, secondo il suo essere non è dipendente dagli strumenti del corpo, così come non lo è dallo specchio l’osservatore che vi stia di fronte. Non l’anima dipende dagli strumenti del corpo, ma solo l’abituale coscienza dell’anima (cfr. il mio libro “Vom Menschenrätsel” a pag. 156. Vorrei aggiungere qui l’osservazione, certamente superflua per molti, che quando, partendo dalla specificità della cosa, paragono la coscienza ad un’immagine riflessa, non lo faccio per chiamare il mondo delle rappresentazioni immagine riflessa del mondo esterno, come si fa abitualmente; io caratterizzo invece ciò che l’anima sperimenta nella coscienza abituale come un’immagine riflessa del vero animico).

Quando si descrive questo ambito di coscienza dipendente dall’organizzazione corporea, si ripartisce giustamente secondo pensare, sentire e volere (cfr. alla fine di questo libro il sesto ampliamento: “Le connessioni fisiche e spirituali dell’entità umana”). Ma Franz Brentano descrive qualcos’altro. Per prima cosa si badi al fatto he egli per “giudicare” intende un accogliere o un rifiutare il contenuto di una rappresentazione. Il giudicare è attività all’interno della vita di rappresentazione; non è un semplice prendere le rappresentazioni che compaiono nell’anima; è invece un porle in rapporto con una realtà, accogliendole o rifiutandole. Se si osserva più attentamente, questo rapporto delle rappresentazioni con una realtà può essere trovato solo in un’attività dell’anima che si compie nell’anima stessa. Tale attività non corrisponde però per niente a ciò che l’anima opera quando giudicando riferisce una rappresentazione a una percezione sensibile. In tal caso si ha la costrizione dell’impressione esterna che non viene del tutto sperimentata interiormente, ma che diviene soltanto un’eco; così, come rappresentata eco di esperienza, porta all’accoglimento o al rifiuto. Invece ciò che il Brentano descrive corrisponde sotto questo rispetto completamente a quel conoscere che nel primo capitolo di questo scritto ho chiamato immaginativo. In tale conoscere, il rappresentare della coscienza abituale non è solo assunto, ma ulteriormente formato nello sperimentare interiore dell’anima, così che da esso si liberi la forza per riferire a una realtà spirituale ciò che l’anima ha sperimentato, in modo da accoglierla o rifiutarla. Il concetto di giudizio del Brentano non è quindi realizzato pienamente nella coscienza abituale, ma nell’anima attiva della conoscenza immaginativa.

In particolare è chiaro che separando del tutto il concetto di rappresentazione da quello di giudizio, come fa il Brentano, il rappresentare sia da lui inteso come mera immagine. Ma questo è il modo in cui il rappresentare abituale vive nella conoscenza immaginativa. Anche questo secondo carattere, che l’antroposofia attribuisce al conoscere immaginativo, si trova quindi nella descrizione che il Brentano da’ dei fenomeni psichici.

Inoltre egli considera le esperienze del sentire come fenomeni di amore e odio. Chi ascende alla conoscenza immaginativa deve di fatto trasformare per lo sguardo soprasensibile quel tipo di esperienze animiche che in senso brentaniano si manifestano per la coscienza usuale come amore e odio, così da potersi contrapporre a determinate caratteristiche della realtà spirituale, quali ad esempio sono descritte nella mia “Teosofìa”: “Per orientarsi nel mondo animico, bisogna anzitutto saper distinguere le varie specie in cui si suddividono le forme che ne fanno parte, come nel mondo fisico usiamo distinguere i corpi in solidi, liquidi, aeriformi o gassosi. Per poter fare questa distinzione bisogna conoscere le due forze fondamentali che qui hanno la massima importanza. Si possono chiamare simpatia e antipatia. Dal modo come agiscono in una forma animica, se ne determina la specie” (pag. 77 del libro citato). Mentre amore e odio restano qualcosa di soggettivo per la vita dell’anima nel mondo sensibile, la conoscenza immaginativa sperimenta il comportamento oggettivo nel mondo animico tramite esperienze interiori equivalenti all’amore e all’odio. Brentano, anche dove parla di fenomeni dell’anima, descrive una caratteristica del conoscere immaginativo (mediante la quale però essa giunge già nell’ambito di un tipo ancora più alto di conoscenza) (la prima forma della “conoscenza veggente”, la immaginativa, trapassa nella seconda, detta nei miei scritti ispirata. Come effettivamente nella definizione brentaniana di amore e odio viva già l’immaginazione trapassata nell’ispirazione, lo si trova presentato nel sesto ampliamento alla fine di questo libro: “Le connessioni fisiche c spirituali dell’entità umana”). E che egli abbia una rappresentazione di tipo oggettivo dell’amore e dell’odio in contrapposizione al modo soggettivo di sentire della coscienza abituale, lo si vede dal fatto che presenta il bene morale come un giusto amore.

Infine si deve tenere in considerazione del tutto particolare che per Franz Brentano il volere cade fuori della cerchia dei fenomeni psichici. Il volere che scorre dalla coscienza abituale appartiene completamente al mondo fisico. Nella forma in cui può essere pensato da questa coscienza, esso si realizza del tutto nel mondo fisico, sebbene sia in sé una manifestazione di natura puramente spirituale entro il mondo fisico. Descrivendo la coscienza abituale esistente nel mondo fisico, il volere non può mancare in tale descrizione. Descrivendo la coscienza veggente, in tale descrizione non può passare alcuna delle rappresentazioni sul volere. Infatti nel mondo animico, a cui si riferisce la coscienza immaginativa, ciò che vi avviene a seguito di un impulso animico risulta diverso da ciò che avviene a seguito di atti volitivi, quali sono propri del mondo fisico. Perciò, in quanto Brentano esamina i fenomeni psichici nel campo in cui è attiva la conoscenza immaginativa, gli deve svanire il concetto del volere.

Pare veramente che il Brentano, descrivendo l’essenza dei fenomeni psichici, sia stato portato a ritrarre in effetti l’essenza della conoscenza immaginativa. Questo risulta chiaro persino da particolari della sua presentazione. Si prenda un esempio tra i tanti che potrebbero essere citati. “La nota caratteristica comune a tutto l’elemento psichico consiste in quella che spesso, con un’espressione purtroppo molto equivocabile, è chiamata coscienza...” (cfr. Franz Brentano, “Vom Ursprung sittlicher Erkenntnis”, p. 14). Ma se si descrivono solo quei fenomeni psichici che, in quanto appartenenti alla coscienza abituale, sono condizionati dall’organizzazione corporea, l’espressione non è per nulla equivocabile. Brentano sente che l’anima reale non vive però in questa coscienza abituale, e si sente indotto a parlare dell’essenza di quest’anima reale in rappresentazioni che comunque, volendo applicarvi l’abituale concetto di coscienza, non possono che essere equivocate,.

Nella sua ricerca Brentano procede in modo da seguire i fenomeni del campo antropologico sino al punto in cui essi costringono chi non abbia pregiudizi a formare sull’anima rappresentazioni che coincidono con quelle che l’antroposofìa trova sul suo cammino. E proprio attraverso la psicologia del Brentano i risultati di entrambe le vie appaiono in perfetta armonia. Ma egli non volle abbandonare la via antropologica. In questo lo ostacolò la sua interpretazione della massima da lui enunciata: “La vera ricerca filosofica non può avere un modo diverso da quello ammesso dalla conoscenza scientifica” (si veda precedentemente: “Vera philosophiae methodus nulla alia nisi scientiae naturalis est”). Un’altra comprensione di questa massima l’avrebbe potuto portare a riconoscere che si vede nella giusta luce il modo di pensare scientifico quando si è coscienti del fatto che per il campo spirituale esso deve mutare la propria essenza. Brentano non ha mai voluto fare i veri fenomeni psichici, quali egli li definisce, oggetto di una specifica coscienza. Se l’avesse fatto sarebbe avanzato dall’antropologia all’antroposofia. Temeva questa via, perché riuscì a vederla solo come uno smarrirsi in un “buio mistico, e un libero vagare della fantasia in regioni sconosciute” (F. Brentano, “Was für ein Philosoph manchmal Epoche macht”, op. cit). Non si impegnò affatto in un esame di ciò che la sua stessa concezione psicologica rendeva necessario. Ogni volta che si trovò davanti alla necessità di continuare la propria via entro il campo antroposofico, si fermò. Voleva risolvere antropologicamente i problemi a cui si può rispondere solo antroposoficamente. Questo tentativo doveva fallire. Poiché doveva fallire, non poté dar seguito alle sue esposizioni iniziali, in modo che la prosecuzione potesse diventare per lui soddisfacente. Se avesse continuato la “Psicologia dal punto di vista empirico” dopo i risultati del primo volume, questa avrebbe dovuto diventare un’antroposofia. Se avesse davvero pubblicato la sua “Psicologia descrittiva, da essa avrebbe dovuto irraggiare antroposofia per ogni dove. Se avesse sviluppato secondo la sua partenza l’etica del suo scritto “L’origine della conoscenza morale” sarebbe dovuto arrivare all’antroposofia.

Davanti alla sua anima stava la possibilità di una psicologia che non poteva essere delineata come meramente antropologica. Quest’ultima non può affatto pensare ai problemi più importanti che vanno sollevati sulla vita dell’anima. La psicologia moderna vuole essere solo antropologica, perché considera non scientifico tutto ciò che la oltrepassa. Brentano però dice: “Per le speranze di un Platone e di un Aristotele di conquistare sicurezza sulla sopravvivenza della nostra parte migliore dopo il dissolvimento del corpo, le leggi di associazione fra rappresentazioni, dello sviluppo di convincimenti e opinioni, e dello spuntare e germogliare di gioia e amore, e tutto il resto, non sarebbero in cambio un vero risarcimento... E se davvero la differenza delle due concezioni significasse l’accettazione o l’esclusione della domanda sull’immortalità, allora essa sarebbe di estrema importanza per la psicologia, e sarebbe inevitabile l’arrivare alla ricerca metafisica sulla sostanza, come portatrice degli stati” (cfr. Franz Brentano, “Psychologie vom empirischen Standpunkte”, pag. 20). L’antroposofia mostra come non si possa entrare, per mezzo di speculazioni metafisiche, nel campo contrassegnato da Brentano, ma solo attraverso l’attività delle forze dell’anima che non possono cadere nella coscienza abituale. In quanto Brentano descrive nella sua filosofia l’essenza dell’anima così che in questa sua descrizione l’essenza della conoscenza veggente viene chiaramente ad espressione, questa filosofia è una perfetta giustificazione dell’antroposofia. E si può vedere in Brentano il filosofo ricercatore che arriva sul suo cammino fino alla porta dell’antroposofia, ma che non vuole aprirla, perché l’immagine che si fa del tipo di pensiero scientifico-naturale gli fa credere di giungere con tale apertura nell’abisso della non-scienza.

Le difficoltà, davanti a cui Brentano si trova spesso quando vuole andare oltre nelle sue considerazioni, dipendono dal fatto che egli riferisce le rappresentazioni sull’essenza dell’animico a quanto è presente nella coscienza abituale. Vi è spinto, perché vuole restare all’interno della concezione che gli pare giustificata secondo la scienza naturale. Ma questa concezione può appunto arrivare coi propri mezzi di conoscenza solo a ciò che dell’animico è presente come contenuto della coscienza abituale. Tale contenuto non è però la realtà dell’animico, ma piuttosto la sua immagine riflessa. In questo Brentano penetra solo dal lato della comprensione concettuale, ma non dall’altro lato, quello dell’osservazione. Nei suoi concetti delinea un’immagine dei fenomeni psichici che si svolgono nella realtà dell’anima; quando osserva, nell’immagine riflessa dell’animico, crede di avere di fronte una realtà (in merito si veda alla fine di questo libro il settimo ampliamento: “La distinzione dell’animico dall’extra-anirnico ad opera di Franz Brentano”).

Un’altra direzione filosofica, per cui Brentano ebbe fortissima avversione, quella di Eduard von Hartmann [1842-1908, teologo e filosofo. Su di lui si veda anche di Rudolf Steiner ne “La mia vita” alle pagine 82-84, 117-119, 187-189, 190, 264 - ndc], è partita anch’essa da un modo di pensare scientifico. Eduard von Hartmann ha compreso il carattere di immagine riflessa della coscienza abituale. Perciò egli non vede in tale coscienza alcuna realtà. Ma rifiuta anche decisamente di portare nella coscienza umana la realtà relativa. Egli rimanda questa realtà al campo dell’inconscio. Per parlarne egli concede solo l’uso, come ipotesi, dei concetti che la coscienza abituale ha formato oltre questo campo (Le idee di Eduard von Hartmann a questo riguardo si trovano esposte in modo facilmente comprensibile nei suoi due libri “Die moderne Psycholagie”, Hermann Haacke, Leipzig 1901, e “Grundriss der Psychologie”, vol.III, Bad Sachsa im Harz 1908). L’antroposofia sostiene che oltrequesto campo l’osservazione spirituale sia possibile, e che a tale osservazione siano accessibili anche concetti che possono essere tanto poco solo ipotetici, quanto quelli acquisiti nel campo sensibile.

Il soprasensibile di Eduard von Hartmann non può essere una conoscenza diretta, ma qualcosa che deriva da ciò che si conosce direttamente. Hartmann fa parte dei filosofi dell’epoca moderna che non vogliono formare concetti se per tale formazione non hanno come punto di partenza i dati dell’osservazione sensibile e delle esperienze della coscienza abituale. Brentano forma tali concetti. Ma si inganna sulla realtà in cui essi possono essere formati attraverso l’osservazione. Il suo spirito si mostra stranamente discorde. Vorrebbe essere del tutto naturalista nel senso in cui il modo di pensare scientifico si è sviluppato nell’epoca moderna. Deve tuttavia formare concetti che si possono giustificare di fronte a questo modo di pensare, solo quando non lo si prenda come l’unico valido. Questa discordanza nello spirito di ricerca di Brentano risulta chiara a chi approfondisca la lettura dei suoi primi scritti: nel suo libro “Il molteplice significato dell’essere secondo Aristotele” (1862), nella sua “Psicologia di Aristotele” (1867), e nel suo “Creazionismo di Aristotele” (1882) (Franz Brentano, “Van der mannigfachen Bedeutung des Seienden nach Aristoteles”, Freiburg im Breisgau; “Die Psychologie des Aristoteles”, Mainz; “Ueber den Creatinismus des Aristoteles”, Wien).

In questi scritti Brentano segue con esemplare erudizione i corsi di pensiero di Aristotele. E in tale seguire acquisisce un pensare che non si esaurisce nei concetti vigenti nell’antropologia. In questi scritti egli presta la sua attenzione a un concetto dell’anima che deduce l’animico dallo spirituale. Formato da processi fisici, questo animico, che origina dallo spirito, si serve dell’organismo per farsi rappresentazioni entro l’esistenza sensibile, Ciò che nell’anima si forma rappresentazioni è di natura spirituale, è il nous di Aristotele. Ma questo nous è di natura duplice; come nous pathetikos è puramente passivo, si lascia stimolare alle sue rappresentazioni dalle impressioni che gli sono date attraverso l’organismo. Perché però queste rappresentazioni appaiano nell’anima attiva per come sono, questa attività deve agire come nous poietikos. Ciò che da’ il nous pathetikos avrebbe solo carattere di apparizioni entro un essere animico oscuro; esse sono illuminate dal nous poietikos. Brentano dice in proposito: “Il nous poietikos è la luce che illumina i fantasmi e rende visibile al nostro occhio spirituale lo spirituale che è nel sensibile” (cfr. Franz Brentano, “Die Psychologie des Aristoteles”, pag. 172).

Se si vuole capire Brentano non si tratta solo di vedere sino a che punto egli abbia accolto le rappresentazioni aristoteliche facendone propria convinzione, ma soprattutto di vedere che in piena dedizione si è mosso col proprio pensiero in queste rappresentazioni. In tal modo però il suo pensiero era attivo in una sfera in cui il punto di partenza non è dato dalla percezione dei sensi, dunque non esiste il fondamento antropologico per la formazione dei concetti. Questo tratto fondamentale del pensiero è rimasto nella ricerca di Brentano. Egli vuole, sì, ammettere solo quanto può essere riconosciuto secondo il modello del tipo di pensiero scientifico-naturale odierno, ma deve formare pensieri che non appartengono a questa sfera. Si può però dire qualcosa sui fenomeni psichici secondo un metodo puramente scientifico-naturale solo nella misura in cui questi sono immagini riflesse, condizionate dall’organizzazione corporea, dell’essere vero e proprio dell’anima, e cioè nella misura in cui esse, nel loro carattere di immagini riflesse, nascono e periscono con l’organizzazione corporea, Ciò che però Brentano deve pensare sulla realtà dell’animico è che si tratta di una realtà spirituale, indipendente dall’organizzazione corporea, che attraverso il nous poietikos rende persino visibile lo spirituale nel sensibile attraverso il nostro occhio spirituale.

Che Brentano col suo pensiero si sappia muovere in queste sfere gli vieta di pensare che l’essere dell’anima nasca con l’organizzazione corporea, e perisca con essa. Poiché però rifiuta un’osservazione soprasensibile, non ci può essere per lui in tale essere animico alcun contenuto osservabile che si estenda oltre l’essere fisico. Appena deve attribuire all’anima un contenuto che questa potrebbe sviluppare senza la mediazione dell’organizzazione corporea, Brentano si sente in un mondo per il quale non trova alcuna rappresentazione. In tale disposizione di spirito si rivolge ad Aristotele, e trova anche in lui rappresentazioni dell’anima che per un’esistenza al di fuori del corpo non danno altro contenuto che quello acquisito nell’esistenza corporea. È caratteristico nella sua unilateralità quanto Brentano presenta a questo proposito nella sua “Psicologia di Aristotele”: “Come l’uomo a cui sia strappato un piede o un altro arto non è più sostanza perfetta, così naturalmente è ancora molto meno sostanza perfetta quando l’intera parte corporea è soggiaciuta alla morte. La parte spirituale continua, sì, ad esistere, solo si sbagliano davvero molto coloro che, come Platone, credono che la separazione dal corpo sia per essa un progresso e per così dire una liberazione da opprimente prigione; d’ora in poi l’anima deve anche rinunciare a tutti gli innumerevoli servizi che le forze del corpo le hanno prestato” (cfr. Franz Brentano, “Die Psychologie des Aristoteles”, pag. 196).

Brentano era giunto a una disputa estremamente interessante col filosofo Eduard Zeller [1814-1908, teologo e filosofo, “Über die Lehre des Aristotetes von der Ewigkeit des Geistes, Berlin 1882 - ndc] sulla concezione dell’anima secondo Aristotele. Zeller sosteneva che l’opinione di Aristotele portasse ad ammettere una preesistenza dell’anima prima della sua unione con l’organizzazione corporea, mentre Brentano negava che Aristotele avesse avuto un’idea simile, ed ammetteva che egli avesse solo pensato che l’anima sia creata per la prima volta entro l’organizzazione corporea; che quindi non abbia alcuna pre-esistenza, ma una post-esistenza dopo il dissolvimento del corpo (in merito alla disputa scientifica fra Brentano e Zeller si veda di Franz Brentano “Offener Brief an Herrn Professor Dr. Eduard Zeller aus Anlass seiner. Schrift über die Lehre des Aristoteles von der Ewigkeit des Geistes”, Leipzig 1883, e “Aristoteles’ Lehre vam Ursprung des menschlichen Geites”, Leipzig 1911). Brentano riteneva che solo Platone ammettesse la preesistenza, non però Aristotele. Non si può negare che i motivi che Brentano adduce a favore della sua opinione contro quella di Zeller abbiano molto peso. Indipendentemente dalla geniale interpretazione brentaniana delle relative affermazioni di Aristotele, è difficile attribuire ad Aristotele l’idea della preesistenza dell’anima, perché un’idea simile pare contraddire un principio della metafisica aristotelica. Aristotele dice cioè che una “forma” non può mai esistere prima della “materia” portatrice della forma. La forma della sfera non esiste mai senza la materia che la riempie. Poiché cioè Aristotele concepisce l’animico come “forma” dell’organizzazione corporea, pare che non gli si possa attribuire di aver pensato che l’anima possa esistere prima della nascita dell’organizzazione corporea.

Brentano si è ora talmente imbrigliato col suo concetto dell’anima nella rappresentazione aristotelica dell’impossibilità di una preesistenza, da non potere notare come la stessa rappresentazione aristotelica manchi in un punto importante. Si può allora davvero pensare “forma” e “materia” in modo tale da presumere che la forma non possa esistere prima della materia che la riempie? La forma della sfera non è presente prima della massa di materia che la riempie? Così come essa appare nella massa di materia, la forma della sfera non è certo presente prima che si addensi materia. Ma prima che questa si raccolga sono presenti le forze che lavorano sulla materia e il cui frutto si manifesta per essa nella sua forma di sfera. Tale forma vive in queste forze già prima del comparire della forma della sfera, certo in un altro modo (l’inganno sulla legittimità dell’affermazione sopra caratterizzata su forma e materia può nascere solo riguardo alla formazione per esempio dei cristalli, poiché lì la forma pare derivare direttamente dalle forze insite nella materia. Eppure un pensiero scevro di pregiudizi non può far altro che presupporre le forze della forma all’interno del materiale prima che la materia formata nasca realmente. La rappresentazione aristotelica è già del tutto insostenibile per le piante, le cui forze formatrici non vanno di sicuro cercate solo nelle condizioni del germe, ma nell’azione del mondo esterno, esistente infinitamente prima della formazione delle piante sensibili). Se Brentano con la sua interpretazione del modo di pensare scientifico non si fosse sentito vincolato, per il contenuto del concetto di anima, alle concezioni sull’organizzazione corporea, avrebbe forse notato che il concetto aristotelico dell’anima stessa è affetto da una contraddizione interna. Così, al seguito della visione del mondo di Aristotele, si è procurato solo la possibilità di pensare rappresentazioni dell’anima che la sollevano dal campo dell’organizzazione corporea, ma che non le assegnano un contenuto tale da permettere di potersela rappresentare, con un pensiero veramente spregiudicato, indipendente dall’organizzazione corporea.

Oltre ad Aristotele, anche Leibniz è per Brentano un filosofo a cui egli accorda particolare approvazione. La visione leibniziana dell’anima pare averlo attirato particolarmente. Si può ora dire che Leibniz in questo campo ha un modo di pensare che sembra un sostanziale ampliamento di quello di Aristotele. Mentre Aristotele fa dipendere dall’osservazione dei sensi il contenuto del pensiero umano, Leibniz stacca tale contenuto dalla base sensibile. In accordo con Aristotele si riconoscerà il detto: non c’è niente nel pensiero che non sia stato prima nei sensi (nihil est in intellectu, quod non fuerit in sensu) [in questa formulazione la frase si trova per primo in Tomaso d’Aquino, “De veritate” II, 3; in una formulazione simile è però già in Cicerone, “De finibus” I, 19]. Leibniz è però del parere che niente ci sia nel pensiero che non sia stato prima nei sensi, tranne il pensiero stesso (nihil est in intellectu, quod non fuerit in sensu, nisi ipse intellectus) [si veda in merito Gottfried Wilhelm Leibnitz, 1646-1716, “Nouveaux essais sur l’entendement humain”, libro II, cap. 1, e di Rudolf Steiner la conferenza del 17/9/1915 in 0.0. n. 164, Dornach 1984 - ndc]. Sarebbe ingiusto attribuire ad Aristotele l’idea che quanto di essenziale si manifesta nel pensiero sia un risultato delle forze operanti nel corpo. Ma in quanto egli fece del nous pathetikos un ricevitore passivo delle impressioni dei sensi, e del nous poietikos un illuminatore di tali impressioni, non rimase nulla nella sua filosofia che potesse diventare contenuto di una vita dell’anima indipendente dall’essere sensibile. Sotto questo rispetto il detto di Leibniz risulta più fruttuoso. Esso dirige l’attenzione soprattutto a ciò che nell’anima è indipendente dall’organizzazione corporea, attenzione che viene comunque limitata alla semplice parte intellettiva dell’anima. Per questo il detto di Leibniz è unilaterale. Tuttavia è una direttiva che nell’attuale epoca scientifica può portare a qualcosa che a Leibniz non era ancora possibile raggiungere. A questo fine, nella sua epoca, le idee sull’origine puramente naturale delle caratteristiche dell’organizzazione corporea erano ancora troppo imperfette. Al presente è diverso. Oggi si può scientificamente riconoscere sino a un certo grado come le forze organiche del corpo si ereditino dagli antenati, e come operi l’anima all’interno di tali forze organiche ereditate. Quello che non viene comunque ammesso da molti che credono di stare nel corretto “punto di vista scientifico”, a una giusta comprensione della conoscenza scientifica, si rivela però come idea necessaria: tutto ciò attraverso cui l’anima opera nella vita fisica è condizionato dalle forze del corpo che passano per via fisica ereditaria dagli antenati ai discendenti, tranne il contenuto dell’animico stesso. All’incirca così si può ampliare al presente la frase del Leibniz. Ma allora essa è la giustificazione antropologica della visione antroposofica e indirizza l’anima a cercare il suo contenuto essenziale in un mondo spirituale, cioè attraverso un tipo di conoscenza diverso da quello consueto dell’antropologia. All’antropologia è infatti accessibile solo quel che viene sperimentato nella coscienza abituale attraverso l’organizzazione corporea (vi sono pensatori che trovano intollerabile l’opinione che il nucleo dell’essenza dell’anima umana non sia ereditata dagli antenati, ma giunga dal mondo spirituale, perché con ciò vedono sminuito il valore del processo riproduttivo. A questi pensatori appartiene il filosofo J. Frohschammer - si veda il suo scritto “Ueber den Ursprung der menschlichen Seele”, pag. 98 e segg. - Egli intende che si dovrebbe supporre che anche le anime dei bambini discendono dai genitori, poiché “gli uomini viventi non possono generare semplicemente dei corpi o addirittura degli animali”, cfr. Frohschammer, “Die Philosophie des Thomas von Aquino”, pag. VIII, Brockhaus, Leipzig 1889. La concezione presentata nelle esposizioni di questo scritto non può essere intaccata da un’obiezione derivante da una di queste opinioni. Infatti, anche quando non lo si pensa derivante dall’atto riproduttivo, non è necessario pensare il nucleo dell’anima, che giungendo dal mondo spirituale si unisce con ciò che eredita dai suoi antenati, senza rapporto con le anime dei genitori prima del concepimento).

Si può essere dell’opinione che Brentano, partendo da Leibniz, avesse avuto tutte le premesse necessarie per aprirsi lo sguardo sull’essenza dell’anima ancorata nello spirito, e attraverso le conoscenze scientifiche dell’epoca moderna per rafforzare ciò che risulta a questo sguardo. Chi segua le sue esposizioni, vede la via che gli si apriva davanti. È una via che avrebbe potuto svelargli un essere animico riconoscibile in modo puramente spirituale, se avesse sviluppato ciò che si trovava entro il campo della sua attenzione, quando scriveva frasi come queste: “Ma come si può pensare a un intervento della divinità” nell’apparire di un’anima umana in un corpo? “Dopo averla creata dall’eternità, connette ora forse la parte spirituale dell’uomo con un embrione, in modo che la prima, sino ad allora esistita per sé come particolare sostanza spirituale, cessi ora di essere un’entità reale per sé, e diventa parte di una natura umana, oppure la crea solo adesso? Quando Aristotele fece la prima supposizione, doveva credere che lo stesso spirito si sarebbe sempre di nuovo unito a sempre nuovi embrioni; infatti secondo lui il genere umano si conserva continuando a procreare all’infinito, mentre può essere la quantità di spiriti esistenti dall’eternità solo finita. Tutti gli esegeti sono ora concordi sul fatto che Aristotele, nell’epoca più matura del suo filosofare, abbia respinto la palingenesi. Questa possibilità è quindi esclusa” (cfr. Franz Brentano, “Aristoteles und seine Weltanschauung”, 1911, pag. 134). Quello che non si trova nel corso dei pensieri di Aristotele, la giustificazione dello sguardo spirituale sulle vite ripetute dell’anima umana attraverso la palingenesi, per Brentano avrebbe potuto risultare dal collegamento tra i concetti sull’anima, maturati con Aristotele, e le conoscenze della scienza moderna.

Avrebbe ancor più potuto percorrere questa strada, avendo egli un senso ricettivo per la gnoseologia della filosofia medioevale. Chi veramente la comprende, acquisisce una somma di idee che si prestano a mettere in relazione i risultati della scienza moderna col mondo spirituale, relazione che con la pura ricerca scientifica antropologica non si può intravedere. Ciò che un tipo di rappresentazione come quello di Tommaso d’Aquino riesce a fare per l’approfondimento della scienza naturale secondo l’aspetto spirituale è oggi del tutto misconosciuto in molte cerchie. In queste si crede che le moderne conoscenze scientifiche comportino un rifiuto di questo tipo di pensiero. La verità è che anzitutto si vuole abbracciare l’essenza del mondo, conosciuta in modo scientifico, con pensieri che ad un’osservazione più accurata restano in sé incompiuti. La loro compiutezza consisterebbe nel pensarli similmente come essenza dell’anima, così come sono pensati da Tommaso d’Aquino. Brentano era pure sulla strada per conquistarsi un giusto rapporto con questo tipo di pensieri. Scrive infatti: “Quando scrissi il mio saggio “Il molteplice significato dell’essere secondo Aristotele”, e più tardi la mia “Psicologia di Aristotele”, volevo favorire la comprensione della sua dottrina in un duplice modo; in primo luogo e specialmente in modo diretto chiarendo alcuni dei punti più importanti della sua dottrina, poi indirettamente, ma in modo più generale, offrendo nuovi argomenti a sostegno del chiarimento. Richiamai l’attenzione sui commentari più acuti di Tommaso d’Aquino, e mostrai come in essi si trovino presentate alcune dottrine con precisione maggiore che in altri commentatori posteriori” (cfr. Franz Brentano, “Aristoteles’ Lehre vom Ursprung des menschlichen Geistes”, 1911, pag. 1).

Brentano si sbarrò da sé la strada che gli si sarebbe potuta presentare attraverso tali studi, con la sua inclinazione verso il modo di pensare di Bacone, Locke, e tutto ciò che è connesso filosoficamente a simile modo di pensare. Considera soprattutto questo modo di pensare consono alla ricerca scientifica (cfr. fra l’altro Franz Brentano, “Die vier Phasen der Philosophie”, 1895, pag. 22 e tutto il suo atteggiamento nel suo discorso all’Università di Vicnna, “Ueber die Gründe der Entmuthigung auf philosophischem Gebiete, 1874). Eppure proprio questo modo di pensare conduce a pensare il contenuto della vita dell’anima in piena dipendenza dal mondo dei sensi. E poiché tale modo di pensare vuole procedere solo antropologicamente, nel suo campo, come risultato psicologico, giunge solo a ciò che in verità non è realtà animica, ma solo un’immagine riflessa di tale realtà, vale a dire il contenuto della coscienza abituale.

Se Brentano avesse visto la natura di immagine riflessa della coscienza abituale, nel prosieguo della ricerca antropologica non avrebbe potuto fermarsi davanti alla porta che guida nell’antroposofia. Nei confronti di questa mia idea si può certo sostenere l’opinione che a Brentano mancasse appunto il dono della vista spirituale, e che perciò non avrebbe cercato il passaggio dall’antropologia all’antroposofia, anche se fosse stato spinto dalla sua particolare indole spirituale a caratterizzare in una forma d’interesse verso i fenomeni psichici tanto razionalmente da poter giustificare tale forma con l’antroposofia. Ma io non sono di questa opinione. Non sono dell’idea che la veggenza spirituale sia ottenibile solo come dono particolare per personalità eccezionali. Devo considerare tale veggenza una facoltà dell’anima umana che ciascuno può acquisire, quando risvegli in sé le esperienze dell’anima che guidano ad essa. E la natura di Franz Brentano mi pare del tutto adatta a un simile appello al risveglio (si veda in merito l’ottavo ampliamento alla fine di questo libro). Credo però che, con teorie che gli si oppongano, lo si possa impedire, che non si riesca a sviluppare la veggenza, quando ci si impigli in idee che mettono in dubbio a priori la sua giustificazione. E quindi Brentano non ha fatto sviluppare la veggenza nella sua anima, perché in lui le idee, che la giustificano in modo così bello, sempre soccombettero a quelle che la rifiutano, e che gli facevano temere che attraverso la veggenza “ci si perda nei passaggi labirintici di una pseudofilosofia” (Franz Brentano, “Was für ein Philosoph manchmal Epoche macht”, op. cit).

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Nel 1895 Brentano fece pubblicare una conferenza (Franz Brentano, “Die vier Phasen der Philosophie und ihr augenblicklicher Stand”, Stoccarda 1895) che aveva tenuto alla “Società letteraria di Vienna”, con riferimento al libro di H. Lorm [Hieronymus Lorm, pseudonimo di Heinrich Landesmann (1821-1902), scrittore politico-satirico, autore di romanzi e poesie; “Der grundlose Optimismus. Ein Buch der Betrachtung”, Wien 1894 - ndc] “L’ottimismo infondato”. La conferenza contiene la sua posizione sulle “Quattro fasi della filosofia, e la loro condizione attuale”. In essa egli difende l’opinione secondo la quale il corso evolutivo della ricerca filosofica sotto un certo rispetto si possa paragonare alla storia delle belle arti. “Mentre altre scienze, finché sono esercitate, presentano un costante progresso, che viene interrotto solo ogni tanto da un periodo di arresto, la filosofia (come le belle arti) accanto ai periodi di sviluppo ascendente mostra periodi di decadenza che spesso non sono meno ricchi, sono anzi più ricchi di manifestazioni d’importanza storica rispetto a periodi di sana fertilità” (Franz Brentano, “Die vier Phasen…”, op. cit., pag. 9), Brentano distingue nella passata evoluzione della filosofia tre simili periodi che passano dalla sana fertilità alla decadenza. Ogni periodo comincia quando, muovendo dalla pura meraviglia filosofica per gli enigmi del mondo, si sveglia un vero interesse scientifico, e a sua volta tale interesse cerca una conoscenza sulla base di un’autentica e pura sete di sapere. A quest’epoca sana ne segue poi un’altra in cui appare il primo stadio del declino. Qui retrocede il puro interesse scientifico, e si ricercano pensieri attraverso cui regolare la vita sociale e personale e con cui potersi orientare. Ora la filosofia non vuole più tendere alla pura conoscenza, ma servire gli interessi della vita. Un ulteriore declino avviene nella terza epoca. Attraverso l’insicurezza di pensieri che scaturiscono da interesse non solo scientifico, si perde fiducia nella possibilità di una vera conoscenza e si cade nello scetticismo. La quarta epoca è poi quella della caduta totale. Il dubbio della terza epoca ha minato tutte le basi scientifiche della filosofia. Da fondamenta non scientifiche si cerca in concetti fantastici e nebulosi di giungere alla verità attraverso uno sperimentare mistico. Brentano crede che il primo cerchio evolutivo cominci con la filosofia greca della natura e che con Aristotele si chiuda la fase sana. All’interno di essa stima Anassagora in modo particolare. È dell’opinione che, sebbene i greci di questo periodo fossero del tutto agli inizi rispetto a molte domande scientifiche, la loro ricerca avesse però un carattere tale da trovare la propria giustificazione davanti a un tipo di pensiero rigorosamente scientifico-naturale. A questa prima fase seguono gli stoici, gli epicurei. Essi portano già una caduta. Vogliono idee che siano al servizio della vita. Nella nuova accademia. particolarmente ad opera di Enesidemo, Agrippa, Sesto Empirico, si vede lo scetticismo annientare ogni fiducia in sicure verità scientifiche. E nel neoplatonismo, con Ammonio Sacca, Plotino, Porfirio, Giamblico, Proclo, al posto della ricerca scientifica compare lo sperimentare mistico che si perde nei passaggi labirintici di una pseudofilosofia.

Nel medioevo, anche se forse non con simile chiarezza, si ripetono le tesse quattro fasi. Con Tommaso d’Aquino comincia un sano tipo di pensiero filosofico che fa rivivere l’aristotelismo in una nuova forma. Nel periodo che segue, il cui rappresentante è Duns Scoto, con un’arte della disputa spinta al mostruoso domina un periodo analogo al primo greco decadente. Ad esso segue il nominalismo che ha un carattere scettico. Guglielmo d’Occam rifiuta la concezione che le idee generali si riferiscano a qualcosa di reale, e da’ quindi al contenuto della verità umana solo il valore di una ricapitolazione concettuale che è al di fuori della realtà; mentre la realtà dovrebbe trovarsi solo nelle singole cose individuali. A questo periodo analogo della scepsi subentra la mistica. che non percorre cammini scientifici, di Eckhardt, Tauler, Heinrich Suso, dell’autore della teologia tedesca, e di altri. Queste sono le quattro fasi dell’evoluzione filosofica nel medioevo.

Nell’epoca moderna comincia ancora con Bacone da Verulamio una sana evoluzione che poggia sul pensiero scientifico in cui poi Cartesio, Locke, Leibniz continuano ad operare fruttuosamente. Ad essa segue l’illuminismo filosofico francese e inglese, in cui il corso filosofico dei pensieri era dominato da massime per ciò che si trovava simpatico per la vita. A questo subentrò con David Hume la scepsi, e ad essa seguì la fase della caduta, che in Inghilterra cominciò con Thomas Reid, in Germania con Kant. Brentano considera nella filosofia di Kant un aspetto che gli consente di accomunarla al periodo plotinico di decadenza della filosofia greca. Rimprovera a Kant di non cercare, da ricercatore scientifico, la verità in una corrispondenza delle rappresentazioni con gli oggetti reali, ma piuttosto di pretendere che gli oggetti si adeguino alla capacità umana di rappresentazione. Con ciò Brentano crede di dovere attribuire alla filosofia kantiana un tratto mistico fondamentale che si manifesterà poi nella filosofia decadente di Fichte, Schelling, Hegel, in piena antiscientificità.

Brentano spera in un nuovo progresso della filosofia, da un lavoro scientifico al suo interno, secondo il modello del modo di pensare scientifico che è diventato dominante nell’epoca moderna. Come introduzione ad una simile filosofia ha enunciato la sua tesi: la vera ricerca filosofica non può avere un modo diverso da quello riconosciuto nella conoscenza scientifica (vedi sopra: “Vera philosophiae methodus nulla alia nisi scientiae naturalis est”). Ad essa volle dedicare il lavoro della sua vita.

Nella prefazione alla pubblicazione della conferenza in cui espose l’idea delle “quattro fasi della filosofia” Brentano dice: “La nuova interpretazione della storia della filosofia può sorprendere qualcuno; per me è accertata da anni, e da più di due decenni fu anche posta a base delle lezioni accademiche sulla storia della filosofia, sia da me, sia da alcuni allievi. Non mi faccio alcuna illusione che essa non incontri dei pregiudizi, e che questi siano forse troppo forti per cedere al primo urto. Delle considerazioni e dei fatti presentati spero almeno che essi non passino inosservati per chi li segua col pensiero” (“Die vier Phasen…”, pag. 5 segg.).

E mia sicura opinione che da queste esposizioni del Brentano si possa ricevere un’impressione importante. In quanto offrono in una certa prospettiva una classificazione delle manifestazioni che compaiono nel corso dell’evoluzione filosofica, esse poggiano meritevolmente su giudizi ben fondati. Le quattro fasi della filosofia offrono differenze che sono ben fondate nella realtà.

Non appena però si cominci l’esame delle forze portanti nelle singole fasi, non si può trovare che Brentano le caratterizzi giustamente. Questo viene alla luce subito con la sua opinione sulla prima fase della filosofia dell’antichità. I tratti fondamentali della filosofia greca, dagli inizi ionici fino ad Aristotele, presentano certo molti caratteri che autorizzano Brentano a vedere in essi un modo di pensare scientifico nel suo senso. Ma questo modo di pensare si effettua davvero attraverso ciò che Brentano chiama il metodo scientifico? non sono piuttosto i pensieri di quei filosofi greci il risultato di ciò che essi sperimentavano nella loro anima come essenza dell’uomo nella sua posizione rispetto all’universo? (nel primo volume del mio libro “Die Rätsel der Philosophie” [in italiano “L’evoluzione della filosofia dai presocratici ai postkantiani” - ndc] ho cercato di rispondere positivamente a questa domanda. Mi sforzo di mostrare come i primi filosofi greci non giungono alle loro idee dall’osservazione della natura, ma giudicano la natura esterna dall’esperienza dell’interiorità della propria anima. Talete diceva che tutto derivava dall’acqua perché sperimentava il processo della formazione dall’acqua come l’essenza della propria interiorità umana. E così i filosofi a lui legati. Si veda a pago 39 seg. del libro sopra citato). Chi risponderà correttamente a questa domanda troverà che gli impulsi interiori per il contenuto di pensiero di questa filosofia si manifestarono direttamente proprio nello stoicismo, nell’epicureismo, in tutta la filosofia pratica di vita dell’epoca greca posteriore. Si può notare come nelle forze dell’anima, che Brentano trova attive nella seconda fase, si trovi il punto di partenza per la prima fase della filosofia dell’antichità. Queste forze erano rivolte alla forma di manifestazione sensibile e sociale del mondo, e perciò poterono solo comparire imperfette nella fase dello scetticismo, che viene spinto al dubbio sulla realtà diretta di questa forma di manifestazione, e nella fase seguente della conoscenza veggente che deve superare tale forma. Per questo motivo quelle fasi appaiono decadenti all’interno della filosofia dell’antichità.

E quali forze dell’anima operano nel corso dell’evoluzione filosofica del medioevo? Che nel tomismo si trovi il culmine di questo corso evolutivo, rispetto alle situazioni che considera Brentano, non lo potrà dubitare nessuno che veramente conosca i fatti da considerare. Ma non si può neppure misconoscere che con il punto di vista cristiano di Tommaso d’Aquino le forze dell’anima attive nella filosofia greca della vita non operano più semplicemente da impulsi filosofici, ma hanno assunto un carattere sopra-filosofico. Quali impulsi operano però in Tommaso d’Aquino, in quanto filosofo? Non occorre avere alcuna inclinazione per le debolezze dei filosofi nominalisti del medioevo; ma si potrà anche trovare che gli impulsi dell’anima attivi nel nominalismo costituiscono la base soggettiva anche per il realismo tomista. Quando Tommaso riconosce i concetti generali, che ricapitolano le manifestazioni delle percezioni sensibili, come qualcosa che si riferisce a una realtà spirituale, ricava la forza per questo suo modo di pensare realistico dal sentimento di ciò che tali concetti significano nell’essere dell’anima stessa, indipendentemente dal fatto che essi si riferiscano a manifestazioni sensibili. Proprio perché non riferì i concetti generali direttamente agli avvenimenti del mondo sensibile, Tommaso sentì come in essi risplenda un’altra realtà, e come essi siano effettivamente solo segni per le manifestazioni della vita sensibile. Quando poi questo sottotono del tomismo comparve nel nominalismo come filosofia autonoma, dovette naturalmente rivelare la propria unilateralità. Il sentimento che i concetti sperimentati nell’anima fondino un realismo rivolto allo spirituale dovette sparire, e dovette diventare dominante l’altro, che i concetti generali siano semplicemente nomi riassuntivi. Comprendendo così l’essenza del nominalismo, si capisce anche la seconda fase della filosofia medioevale che lo precede, lo scotismo, come un passaggio al nominalismo. Ma non si potrà comunque fare a meno di intendere tutta la forza del lavoro di pensiero medioevale, in quanto essa è filosofia, partendo dalla concezione base che è comparsa in modo unilaterale nel nominalismo. Poi però si giungerà all’opinione che le forze realmente portanti di questa filosofia si trovano negli impulsi dell’anima che, nel senso della classificazione di Brentano, si devono definire come appartenenti alla terza fase. E in quell’epoca, che Brentano definisce come la fase mistica del medioevo, risalta anche chiaramente come i mistici che vi appartenevano, persuasi della natura nominalistica della conoscenza concettuale, per addentrarsi nel nucleo delle manifestazioni del mondo, non si rivolgevano a questa, ma ad altre forze dell’anima.

Seguendo ora l’attività delle forze portanti dell’anima per la filosofia dell’epoca moderna sul filo della classificazione brentaniana, si troverà che gli impulsi essenziali interiori di quest’epoca sono tutt’altri che quelli elencati da Brentano. La fase del modo di pensare scientifico, che Brentano vede realizzarsi con Bacone da Verulamio, Cartesio, Locke, Leibniz, a causa di certi suoi tratti fondamentali non si lascia affatto pensare come puramente scientifica, nel senso brentaniano. Come si dovrebbe riuscire ad afferrare solo in modo scientifico il pensiero base di Cartesio “io penso, quindi sono»? come portare entro il modo di pensare scientifico di Brentano la monadologia leibniziana, o la sua “armonia prestabilita”? Anche l’interpretazione brentaniana della seconda fase, che egli assegna alla filosofia illuministica francese e inglese, crea difficoltà, quando ci si voglia fermare alle di lui rappresentazioni. Non si vorrà certo negare a quest’epoca il carattere di un periodo di decadenza della filosofia, ma la si potrà capire partendo dal fatto che nei suoi portatori gli impulsi extra-filosofici dell’anima, energicamente attivi nella concezione cristiana della vita, furono paralizzati in modo che non poté più trovarsi filosoficamente un rapporto con le forze soprannaturali del mondo. Allo stesso tempo continuava ancora ad operare la scepsi nominalistica del medioevo, e con ciò venne impedito che si cercasse un rapporto tra il contenuto di conoscenza sperimentato dall’anima e una realtà spirituale.

Se si arriva allo scetticismo moderno e a quel modo di pensare che Brentano ascrive ad una fase mistica, si perde la possibilità di approvare ancora la sua classificazione. Certo si deve far cominciare la fase scettica con David Hume. Ma definire Kant, il critico, come mistico si rivela comunque una caratterizzazione molto unilaterale. Anche le filosofie di Fichte, Schelling, Hegel e di altri pensatori del periodo seguente a Kant non si lasciano concepire come mistiche, specialmente quando si ponga a base il concetto brentaniano della mistica. Si troverà piuttosto un tratto fondamentale comune da David Hume oltre Kant, sino ad Hegel, proprio nel senso della classificazione brentaniana. Esso consiste nel rifiuto, a motivo delle rappresentazioni che vengono ricavate dal mondo sensibile, di ascrivere una vera realtà all’immagine filosofica del mondo. Per quanto paradossale sembri chiamare Hegel uno scettico, tuttavia, in quanto Hegel non attribuisce alcun valore diretto di realtà alle rappresentazioni che sono prese dalla natura, lo è. Non ci si allontana dal concetto brentaniano dello scetticismo, quando si intende l’evoluzione della filosofia da Hume sino ad Hegel come la fase dello scetticismo moderno. Si può far cominciare la quarta fase moderna solo dopo HegeI. Ciò che in essa compare come modo di penare scientifico, Brentano non lo vorrà però certamente avvicinare al misticismo. Eppure si consideri in che modo Brentano stesso vuole inserirsi in questa epoca col suo filosofare. Con un’energia difficilmente superabile esige per la filosofia un metodo scientifico. Nella sua ricerca psicologica persegue questa metodologia. E ciò che ne ricava è una giustificazione dell’antroposofia. Ciò che dovrebbe comparire, come continuazione della sua aspirazione antropologica se procedesse nel senso di quanto da lui presentato, sarebbe antroposofia. Appunto un’antroposofia che sia in piena armonia col modo di pensare scientifico.

Il lavoro stesso di tutta la vita di Brentano non è forse la dimostrazione più valida del fatto che la quarta fase della filosofia moderna deve trarre i propri impulsi dalle forze dell’anima che il neoplatonismo, così come la mistica del medioevo volevano ma non potevano mettere in azione, non riuscendo a giungere con l’interiore attività dell’anima ad uno sperimentare la realtà spirituale quale si compie nella piena chiarezza cosciente del pensiero (o dei concetti)? Come la filosofia greca attinse la propria forza dagli impulsi dell’anima che Brentano vede realizzarsi nella seconda fase filosofica, nella filosofia pratica di vita; come la filosofia medioevale deve la propria forza agli impulsi della terza fase, allo scetticismo; così la filosofia moderna deve trarre i propri impulsi dalle forze di base della quarta epoca, dalla veggenza che conosce. Se quindi Brentano può supporre nel neoplatonismo e nella mistica medioevale filosofie decadenti, in conformità al suo modo di pensare, si potrebbe riconoscere nell’antroposofia che completa l’antropologia la fase fruttuosa della filosofia moderna, portando le idee di questo filosofo sull’evoluzione della filosofia alle conseguenze che egli stesso non ha tratto, ma che da esse risultano del tutto senza forzatura.

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Dal caratterizzato rapporto di Brentano con le esigenze di conoscenza del presente, certo deriva che leggendo i suoi scritti si ricevano impressioni che non si esauriscono in ciò che è contenuto diretto dei concetti da lui presentati. In questo leggere risuonano dappertutto sotto-toni. Essi provengono da una vita dell’anima che si trova molto lontano, dietro le idee espresse. Ciò che Brentano suscita nello spirito del lettore è spesso più fortemente attivo in lui di quanto detto dall’autore in rappresentazioni ben definite. Ci si sente anche spinti a ritornare spesso alla lettura di uno scritto brentaniano. Si può avere riflettuto molto su ciò che al presente si dice sul rapporto della filosofia con altri pensieri conoscitivi: in questo riflettere riaffiorerà quasi sempre alla memoria lo scritto di Brentano “Sul futuro della filosofia”. Questo scritto riproduce una conferenza che egli tenne nel 1892 a Vienna, alla “Società filosofica”, per opporre la sua concezione sul futuro della filosofia alle idee ad essa relative che il giurista Adolf Exner [1841-1894, professore di diritto romano a Vienna, “Uber politische Bildung”, Wien 1891 - ndc] aveva presentato nel suo discorso inaugurale sulla “formazione politica” (1891) (Franz Brentano, “Über die Zukunft der Philosophie”, Wien 1893, conferenza tenuta in risposta apologetico-critica al discorso inaugurale del rettore dell’Università di Vienna Adolf Exner: “Über politische Bildung”). La conferenza è ricca di “annotazioni” che offrono panorami storici di grande prospettiva sull’evoluzione spirituale dell’umanità.

In questo scritto tutto ricorda ciò che può risultare, a chi osservi il modo di pensare scientifico del presente, sulla necessità di procedere da questo modo di pensare ad uno antroposofico.

I portatori del modo di pensare scientifico vivono per lo più nella convinzione che esso sia loro imposto dall’essere reale delle cose stesse. Credono di organizzare le proprie conoscenze per come la realtà si manifesta. Eppure quel credo è un’illusione. La verità è che nell’epoca moderna l’anima umana ha sviluppato dalla propria evoluzione attiva nel corso dei millenni il bisogno di rappresentazioni come quelle che costituiscono l’immagine scientifica del mondo. Helmholtz, Weisman, Huxley e altri sono giunti alle loro rappresentazioni non perché la realtà le abbia date loro come la verità assoluta, ma perché dovevano formare in sé quelle rappresentazioni per gettare attraverso di esse una certa luce sulla realtà che veniva loro incontro. Non ci si forma un’immagine matematica o meccanica del mondo perché una realtà al di fuori dell’anima ci forza a farlo, ma perché si sono sviluppate nella propria anima le rappresentazioni matematiche e meccaniche, e con ciò ci si è aperti una fonte interiore di illuminazione per ciò che nel mondo esterno si manifesta in modo matematico e meccanico.

Sebbene quanto appena caratterizzato sia valido in generale per ogni grado di evoluzione dell’anima umana, nelle moderne rappresentazioni scientifiche questo si presenta ancora in un modo particolare. Queste rappresentazioni, se sono ponderate conseguentemente in un certo aspetto, annullano i concetti sull’animico. Lo si vede chiaro nel concetto non irrilevante, ma altamente discutibile, di una “teoria dell’anima senz’anima” (l’espressione fu formulata da Friedrich Albert Lange, 1828-1875, nella sua opera “Geschichte des Materialismus und Kritik seiner Bedeutung in der Gegenwart (Psychologie ohne Seele)”, Iserlohn 1866) che è stata creata non solo da filosofi dilettanti, ma da pensatori molto seri (anche il concetto di “teoria dell’anima senz’anima” rientra nel campo degli enigmi caratterizzati in questo libro in merito ai confini della conoscenza, c se non è vissuto come punto di partenza per una coscienza veggente, impedisce il passaggio a una vera conoscenza animica anziché indicarne il cammino). Simili concetti portano a vedere sempre più le manifestazioni della coscienza abituale nella loro dipendenza dall’organizzazione corporea. Se non è contemporaneamente riconosciuto che in ciò che in tal modo compare come animico non si manifesta l’animico stesso, ma la sua immagine riflessa, l’idea reale dell’animico si stacca dall’osservazione e compare la parvenza di idea che nell’animico vede solo l’effetto dell’organizzazione corporea. Ora però quest’ultimo modo di vedere non è d’altra parte sostenibile per un pensiero spregiudicato. Le idee che la scienza naturale forma sulla natura, di fronte a questo pensare spregiudicato, mostrano la loro connessione animica con una realtà che si trova dietro la natura, connessione che non si manifesta in quelle stesse idee. Nessun tipo di osservazione antropologica può giungere da sé a rappresentazioni esaurienti su questa connessione. Infatti essa non entra nella coscienza abituale.

Nelle attuali rappresentazioni scientifiche questo fatto viene alla luce con forza maggiore che non in stadi di conoscenza storicamente passati. Nell’osservazione del mondo esterno questi ultimi formavano ancora concetti che accoglievano nel loro contenuto qualcosa del fondamento spirituale del mondo esterno, e l’anima si sentiva nella propria spiritualità come in un’unità con lo spirito del mondo esterno. La scienza moderna, secondo la propria essenza, deve pensare appunto la natura in termini puramente naturali. Con ciò acquista, sì, la possibilità di giustificare il contenuto delle proprie idee per mezzo dell’osservazione della natura, ma non l’esistenza di queste idee stesse, come interiore essenza animica.

Per questo motivo proprio il modo di pensare autenticamente scientifico è senza alcun terreno se non può giustificare la propria esistenza per mezzo di una osservazione antroposofica. Con l’antroposofia si può aderire al modo di pensare scientifico, senza limiti; senza antroposofia si vorrà sempre ancora rinnovare il vano tentativo di scoprire lo spirito stesso partendo dai risultati dell’osservazione scientifica. Le idee scientifiche dell’epoca moderna sono appunto prodotti della convivenza dell’anima con un mondo spirituale; ma l’anima può sapere di questa convivenza solo in una vivente osservazione spirituale (dove giunga un autentico tipo di osservazione scientifico-naturale, lo mostra in modo illuminante il libro di Oskar Hertwig: “Das Werden der Organismen, Widerlegung von Darwins Zufallstheorie”, Jena 1916), pregevole sotto molti aspetti. Proprio quando un lavoro come quello che è alla base dello scritto citato è eseguito in modo così esemplare con metodo scientifico, porta a innumerevoli esperienze dell’anima ai “confini della conoscenza”).

Si potrebbe facilmente arrivare alla domanda: perché allora l’anima cerca di formare rappresentazioni scientifiche, se proprio così si crea un contenuto che la distoglie dal suo fondamento spirituale? Dal punto di vista dell’opinione che crede formate le rappresentazioni scientifiche perché il mondo inevitabilmente si manifesta in modo conforme ad esse, non si può trovare alcuna risposta alla domanda posta. Se invece si bada alle necessità della vita stessa dell’anima ne risulta ben una. Con rappresentazioni, quali solo un’epoca pre-scientifica ha formate, l’esperienza animica non potrebbe mai arriare alla piena coscienza di se stessa. Sentirebbe, sì, nelle idee sulla natura, che comprendono lo spirito, una connessione indeterminata con esso, ma non potrebbe arrivare a sentire la caratteristica piena, indipendente, dello spirito. Perciò l’animìco, nel corso dell’evoluzione dell’umanità, tende alla formazione di idee che non contengano l’elemento animico stesso, per conoscere così se stesso nelle idee, indipendentemente dall’esistenza naturale. Ma allora la connessione con lo spirito non va cercata per mezzo di queste idee sulla natura, ma per mezzo di un vedere spirituale conoscente. La formazione della scienza moderna è uno stadio necessario nel corso dell’evoluzione animica dell’umanità. Se ne riconosce il fondamento quando si scopre come l’anima ne abbia bisogno per trovare se stessa. D’altro lato se ne riconosce la portata gnoseologica quando si capisca come proprio essa renda necessario il vedere spirituale (quanto sopra espresso è esposto in modo particolareggiato nel mio libro “Die Rätsel der Philosophie” [in italiano “L’evoluzione della filosofia dai presocratici ai postkantiani” - ndc]. Il dimostrare come il conoscere scientifico-naturale dimostri la sua forza nel progredire dell’anima dell’umanità, costituisce uno dei pensieri fondamentali di quel libro).

Adolf Exner, contro la cui opinione è indirizzato lo scritto di Brentano “Il futuro della filosofia”, era di fronte a una scienza che vuole, sì, formare anche idee sulla natura, ma che non è pronta per arrivare all’antroposofia, quando si tratta di capire la realtà dell’anima. Egli trovava la “formazione scientifica” improduttiva per l’elaborazione delle idee che devono agire nella convivenza sociale umana. Per la soluzione dei problemi della vita sociale, incombenti sulla prossima epoca, egli chiede quindi un tipo di pensiero che non poggi su una base scientifica. Trova che i grandi problemi giuridici di fronte a cui stette la romanità vennero da essa risolti tanto fruttuosamente, proprio perché i romani avevano poca attitudine per il modo di pensare scientifico. E cerca di provare che il secolo diciottesimo, malgrado la sua inclinazione al modo di pensare scientifico, si mostrò poco in grado di superare i problemi sociali. Exner volge lo sguardo verso un modo di pensare scientifico che non si preoccupa delle sue basi in senso scientifico. Si può capire che egli sia giunto alle sue opinioni di fronte a un tale modo di pensare. Infatti quel pensare deve elaborare le sue idee in modo che esse portino davanti all’anima ciò che è conforme alla natura nella sua purezza. Da esse non si può ricavare nessun impulso per pensieri che siano fruttuosi nella vita sociale. Infatti entro di essa le anime in quanto tali si stanno reciprocamente di fronte. Un impulso come quello cercato può solo risultare quando l’animico sia sperimentato nella sua qualità spirituale, grazie al vedere conoscente, quando la visione antropologico-scientifica trova il suo completamento in quella antroposofica.

Brentano portava nella sua anima idee che veramente sfociavano nel campo antroposofico, malgrado volesse restare solo in quello antropologico. Per questo le sue esposizioni contro Exner sono efficacemente energiche, anche se Brentano stesso non voleva compiere il passo verso l’antroposofia. Esse mostrano come Exner non parli affatto di ciò che realmente può fare un modo di pensare scientifico che afferri se stesso, e come invece egli combatta contro i mulini a vento di un tipo di pensiero che fraintende e stesso. Si può leggere lo scritto di Brentano, e sentire dappertutto come sia giustificato tutto ciò che indica, attraverso le sue idee, in questa o in quella direzione, senza trovare che egli esprima completamente ciò a cui rimanda.

Con Franz Brentano se ne è andata una personalità che permette di trarre un utile incommensurabile dallo sperimentare la sua opera. Tale utile è indipendente dal grado di concordanza intellettuale che le si può portare incontro. Esso deriva infatti dalle rivelazioni di un’anima umana le quali hanno la loro origine molto più profondamente nella realtà del mondo che non nella sfera in cui nella vita abituale si trova il concordare intellettuale. E Brentano è una personalità che certamente continuerà ad operare nel corso dell’evoluzione dell’umanità, attraverso impulsi che non si esauriscono nella continuazione delle idee da lui sviluppate. Mi posso ben immaginare che qualcuno non sia proprio d’accordo con quanto ho esposto qui sul rapporto di Brentano con l’antroposofia; comunque, indipendentemente dalla posizione scientifica nella quale ci si trovi, mi pare impossibile che non si debba giungere a sentimenti di venerazione di fronte al valore della personalità di Franz Brentano non minori dell’intento delle mie esposizioni, quando si faccia agire su di sé lo spirito filosofico che spira nei suoi scritti.