Appendice 3ª - Dell’astrattezza dei concetti

Già nel primo capitolo di questo scritto parlo dell’“indebolimento” delle rappresentazioni, quando queste diventano riproduttrici di una realtà sensibile. In tale “indebolimento” è da cercare il fatto reale che è alla base del procedere astratto nella conoscenza. L’uomo si forma concetti sulla realtà sensibile. Per la teoria della conoscenza sorge il problema di come ciò che l’uomo ritiene nella sua anima come concetto di un’entità reale, o di un avvenimento, si rapporti a quell’entità reale, a quell’avvenimento. Il concetto di lupo che porto in me ha qualche rapporto con una realtà, o è semplicemente uno schema creato dalla mia anima, schema che mi sono formato nella misura in cui prescindo (astraggo) da ciò che è peculiare di questo o di quel lupo, ma a cui non corrisponde nulla nel mondo reale? Questo problema fu ampliamente esaminato nella disputa medioevale tra nominalisti e realisti. Per i nominalisti nel lupo sono reali solo le sostanze visibili presenti in esso in quanto singolo individuo: la carne, il sangue, le ossa, e così via. Il concetto “lupo” è “semplicemente” un riepilogo mentale delle caratteristiche comuni ai diversi lupi. Il realista replica: ogni sostanza che si trovi nel singolo lupo si incontra anche in altri animali. Ci deve essere qualcosa che ordina la materia nella connessione vivente in cui essa si trova nel lupo. Questa realtà ordinatrice è data attraverso il concetto.

Si dovrà ora ammettere che Vincenz Knauer (1828-1894, filosofo) l’eminente conoscitore di Aristotele e della filosofia medioevale, nel suo libro “Die Hauptprobleme der Philosophie” (Wien 1892), nella trattazione della teoria aristotelica della conoscenza (pag. 137) dice qualcosa di eccellente con le parole: “Ad esempio il lupo non è composto di alcun altro elemento materiale che di agnello; la sua corporeità materiale si forma da carne d’agnello assimilata; ma il lupo non diventa agnello, anche se per tutta la vita non mangia altro che agnelli. “Ciò che quindi fa di lui un lupo dev’essere ovviamente qualcos’altro della Hyle, la materia sensibile, e invero non deve e non può essere alcuna entità ideale, sebbene sia accessibile solo al pensiero, non al senso, ma qualcosa di operante, quindi di reale, molto reale”. Ma nel senso di un esame puramente antropologico, come si può arrivare alla realtà a cui si accenna qui? Quanto è comunicato all’anima dai sensi non da’ il concetto “lupo”. Ciò che d’altronde di questo concetto è presente nella coscienza abituale sicuramente non è “operante”. Dalla forza di questo concetto non poteva certo nascere l’azione ordinatrice delle materie “sensibili” riunite nel lupo. La verità è che l’antropologia con questo problema è a uno dei limiti del suo conoscere. L’antroposofia mostra che oltre al rapporto dell’uomo col lupo che vi è nel “sensibile” ne esiste ancora un altro. Nella sua caratteristica diretta questo non entra nella coscienza abituale, ma esiste come vivente connessione soprasensibile tra l’uomo e l’oggetto guardato con i sensi. Ciò che di vivente esiste nell’uomo a seguito di questa connessione viene indebolito a “concetto” dalla sua organizzazione razionale. La rappresentazione astratta è il reale che si è spento per essere reso presente in immagine nella coscienza abituale, in cui invero vive l’uomo con la percezione dei sensi, ma che non diventa cosciente nella sua vita. L’astrattezza delle rappresentazioni è prodotta da un’interiore necessità dell’anima. La realtà da’ all’uomo qualcosa di vivente. Egli soffoca di questa realtà vivente la parte che cade nella sua coscienza abituale. Lo fa perché rispetto al mondo esterno non potrebbe giungere all’autocoscienza se dovesse sperimentare in tutta la sua vitalità il relativo rapporto col mondo esterno. Senza l’indebolimento di questa piena vitalità l’uomo si dovrebbe riconoscere come membro di un’unità che si estende al di fuori dei suoi confini umani, dovrebbe essere organo di un organismo più grande. Il modo in cui egli fa finire nell’astrattezza dei concetti verso l’interno il suo processo di conoscenza non è condizionato da una realtà posta fuori di lui, ma dalle condizioni di sviluppo del proprio essere, condizioni che esigono che nel processo percettivo egli smorzi il rapporto vivente con il mondo esterno nei concetti astratti che formano la base su cui cresce l’autocoscienza. Che sia così si mostra all’anima dopo lo sviluppo dei suoi organi spirituali. Grazie a questi è ristabilito il vivente rapporto (nel senso esposto a pag. 21 di questo scritto) [“Enigmi dell’anima” - ndr] con una realtà spirituale situata fuori dell’uomo; se però l’autocoscienza non fosse già un’acquisizione da parte della coscienza abituale, essa non potrebbe essere perfezionata nella coscienza veggente. Da questo si può capire che la sana coscienza abituale è la premessa necessaria per la coscienza veggente. Chi crede di poter sviluppare una coscienza veggente senza la sana e attiva coscienza abituale si sbaglia davvero molto. La normale coscienza abituale deve persino accompagnare la coscienza veggente in ogni istante, perché altrimenti quest’ultima porterebbe disordine nell’autocoscienza umana, e quindi nel rapporto dell’uomo con la realtà. Nella sua conoscenza veggente l’antroposofia può avere a che fare solo con una simile coscienza, non però con una qualsiasi attenuazione della coscienza abituale.