I

ANTROPOLOGIA E ANTROPOSOFIA

Il libro di Max Dessoir (1867-1947) “Al di là dell’anima” contiene un breve capitolo in cui appare che la scienza spirituale orientata antroposoficamente, da me rappresentata, si definisca ingiustificatamente scientifica (cfr. le pagg. 254-263 di M. Dessoir, “Vom Jenseits der Seele - Die Geheimwissenschaflen in kritischer Betrachtung”, Stuttgart 1917). Ora potrebbe sembrare ad alcuni che una discussione con personalità che poggiano sulla prospettiva scientifica di Dessoir debba essere infruttuosa in ogni caso per il rappresentante dell’antroposofia scientifico-spirituale, poiché quest’ultimo deve sostenere un campo di esperienza puramente spirituale che il primo rifiuta per principio, e relega nel campo delle fantasticherie. Si potrebbe quindi parlare di conoscenze scientifico-spirituali da esaminare solo con chi creda di avere a priori dei motivi per cui il campo che si intende scientifico-spirituale sia una realtà.

Questa opinione sarebbe giusta se il rappresentante dell’antroposofia non esponesse altro che esperienze personali della propria vita interiore, e queste si collocassero semplicemente a fianco dei risultati della scienza fondata sull’osservazione sensibile, e sull’elaborazione scientifica di questa osservazione. Allora si potrebbe dire: il seguace della scienza così caratterizzata rifiuta di considerare realtà le esperienze dell’investigatore del campo spirituale, e quest’ultimo può far presa, con ciò che espone, solo su personalità che sin da principio si pongono dal suo punto di vista.

Ora però questo parere si fonda su un’interpretazione malintesa di ciò che io chiamo antroposofia. Vero è che l’antroposofia si fonda su esperienze animiche conquistabili indipendentemente da impressioni del mondo dei sensi e anche da giudizi scientifici i quali si basano soltanto sulle impressioni dei sensi. Quindi bisognerebbe ammettere che i due modi di esperienza appaiono a tutta prima divisi da un abisso incolmabile. Eppure questo non corrisponde alla verità. C’è un campo comune su cui le due impostazioni di ricerca si devono incontrare, e su cui è possibile una discussione circa quanto è esposto dall’uno e dall’altro. Questo campo comune si può caratterizzare nel modo seguente.

Il rappresentante dell’antroposofia crede di poter affermare, da esperienze che non sono solo sue vicende personali, che i processi umani di conoscenza possono essere sviluppati oltre il punto in cui si ferma il ricercatore che si vuole fondare solo sull’osservazione sensibile e sul giudizio razionale circa tale osservazione. Per evitare continue perifrasi prolisse in ciò che segue, vorrei chiamare antropologia l’impostazione scientifica basata sull’osservazione sensibile e sull’elaborazione razionale dell’osservazione sensibile, e vorrei pregare il lettore di permettermi l’uso insolito di quest’espressione, che sarà utilizzata nelle esposizioni seguenti solo per ciò che qui è stato caratterizzato. In tal senso l’antroposofia crede di poter cominciare con la propria ricerca là dove l’antropologia smette (sebbene ciò che è da me rappresentato come antroposofia si trovi nei suoi risultati su un terreno totalmente diverso dalle argomentazioni di Robert Zimmermann, 1824-1898, filosofo, nel suo libro “Anthroposophie” uscito nel 1881, credo tuttavia di poter utilizzare il concetto della differenza tra antroposofia ed antropologia, caratterizzato da Zimmermann. Zimmermann prende in considerazione per il contenuto della sua “antroposofia” solo i concetti offerti dall’antropologia in uno schema astratto. Per lui il guardare-che-conosce, su cui poggia l’antroposofia da me intesa, non si trova nel campo delle vie di ricerca scientifica; la sua antroposofia si differenzia dall’antropologia solo per il fatto che la prima sottopone i concetti ricavati dalla seconda a un procedimento simile al filosofare herbartiano, prima di farne contenuto del proprio schema puramente razionale d’idee).

Il rappresentante dell’antropologia si limita a riferire alle esperienze dei sensi i concetti razionali sperimentabili nell’anima. Il rappresentante dell’antroposofia fa l’esperienza che questi concetti, indipendentemente dal fatto che siano riferiti alle impressioni dei sensi, possono anche dispiegare nell’anima una vita a sé, e che in quanto svolgono questa vita all’interno dell’anima, vi attuano proprio uno sviluppo. Egli diventa consapevole di come l’anima, quando volga la necessaria attenzione a questo sviluppo, scopra entro il proprio essere il manifestarsi in lei di organi spirituali (un’esposizione particolareggiata e una giustificazione dell’uso dell’espressione “organi spirituali” si trova nel mio libro “Vom Menschenrätsel”, Dornach 1957, alla pag. 146 e segg., e in tutti gli altri miei scritti relativi alla concezione goethiana del mondo [cfr. R. Steiner: “Linee fondamentali di una gnoseologia della concezione goethiana del mondo” e “La concezione goethiana del mondo” - ndc]; uso l’espressione “organi spirituali” accogliendo ed estendendo il modo di dire che Goethe dedusse dalla sua visione del mondo, quando usò le espressioni “occhi dello spirito”, “orecchi dello spirito”) [Si veda un articolo di Goethe: “Wenige Bemerkungen” (a Kaspar Friedrik Wolff), a pag. 107 dell’edizione degli scritti scientifici di Goethe pubblicati con i commenti di Rudolf Steiner (nella ristampa fatta a Dornach nel 1975): “Per quanto buono sia questo metodo, grazie al quale egli (K. F. Wolff) ha ottenuto tanto, pure quest’uomo eccellente certo non pensava che ci fosse una differenza tra vedere e vedere, che gli occhi dello spirito agiscano in continuo e vivente legame con gli occhi del corpo, perché altrimenti si correrebbe il pericolo di vedere e in pari tempo di non vedere”. Si veda anche nel “Faust II”, atto primo, verso 4667: “Tönend wird für Geistes-Ohren / schon der neue Tag geboren” (Tuonando già nasce il nuovo giorno per le orecchie dello spirito) - ndc]. Tali organi spirituali rappresentano organizzazioni che per l’anima possono essere pensate simili a ciò che gli organi di senso sono per il corpo. Naturalmente possono essere pensati solo animicamente. Ogni tentativo di identificarli con ogni organizzazione corporea va respinto dall’antroposofia nel modo più deciso. Essa non deve rappresentarsi i propri organi spirituali in alcun modo come fuoriuscenti dal campo dell’anima, per prevaricare sulle strutture del corpo. L’antroposofia considera patologico un tale prevaricare, e lo esclude decisamente dal proprio campo. Il modo in cui si pensa nell’ambito antroposofico riguardo allo sviluppo degli organi spirituali dovrebbe dimostrare con sufficiente energia a chi davvero si informa su questo modo, che sulle anormali esperienze dell’anima: illusioni, visioni, allucinazioni e così via non esistono per l’indagatore del vero campo spirituale rappresentazioni diverse da quelle accettate anche all’interno dell’antropologia (le esperienze interiori che l’anima può attraversare per giungere all’uso dei suoi organi spirituali sono descritte in numerosi miei scritti e specialmente nel mio libro “L’iniziazione” e nella seconda parte della mia “Scienza occulta”). Confondere i risultati antroposofici con le cosiddette esperienze anormali dell’anima dipende sempre da un malinteso, o da un’insufficiente conoscenza di ciò che si intende nell’antroposofia. Inoltre, chi segua con criterio la via che l’antroposofia indica per lo sviluppo degli organi spirituali, non può certo arrivare a credere che tale via possa condurre a sviluppi o stati patologici. Chi guarda con criterio dovrebbe piuttosto riconoscere che tutti i gradi dell’esperienza animica che l’uomo attraversa sulla via della visione spirituale nel senso dell’antroposofia si trovano in un campo che è esclusivamente animico, e accanto al quale l’esperienza dei sensi e il giudizio abituale si svolgono immutati, così come si erano svolti prima della formazione di questo campo. Che proprio in relazione a questo aspetto della conoscenza antroposofica regnino molti malintesi dipende dal fatto che il richiamare nel campo della propria attenzione un puro elemento animico comporta per alcuni delle difficoltà. Queste persone sono subito abbandonate dalla propria forza di rappresentazione, quando essa non sia sostenuta dal riferimento alle cose percepibili coi sensi. La loro forza di rappresentazione si smorza allora, diventando meno intensa di quella che domina nei sogni, sino a scendere al grado minimo che regna nel sonno senza sogni, quando il sogno non è più cosciente. Si può dire che in queste persone la coscienza è riempita dalle conseguenze o dagli effetti diretti delle impressioni dei sensi, e che a questo si accompagna un dormire per tutto ciò che sarebbe riconosciuto come animico, se potesse essere colto. Si può anche dire che la vita propria dell’anima è esposta da molte persone al malinteso più stridente, solo perché non riescono a destarsi di fronte ad essa come invece fanno di fronte al contenuto sensibile della coscienza. Che le persone che dispongono solo di quel grado di attenzione che opera nella vita abituale si trovino in questa condizione non fa certo stupire chi sappia vedere in giusta luce per esempio quale insegnamento si possa trarre da un rimprovero che Franz Brentano [Franz Brentano (1838-1917), prima teologo cattolico, poi professore di filosofia e psicologia alle università di Würzburg e Vienna. Su Franz Brentano si veda ancora di Rudolf Steiner: “Franz Brentano. Über die Zukunft der Philosophie” in 0.0. n. 30, pag. 526 segg.; la conferenza del 12/12/1911 in “Antroposofia, psicosofia, pneumatosofia”, 0.0. n. 115, Ed. Religio, Roma 1939; i due articoli ora in “Der Goetheanumgedanke inmitten der Kulturkrisis der Gegenwart”, 0.0. n. 36, Dornach 1961 “Die Lehre Jesu’ von Franz Brentano” e “ Das Verstehen der Menschen (Brentano und Nietzsche)” alle pagg. 153 e 158. Di tutte le opere di Franz Brentano citate nel testo risultano pubblicate anche in italiano soltanto: “La classificazione delle attività psichiche”, Ed. Carabba, Lanciano 1913, e “Sull’origine della conoscenza morale”, La Scuola, Brescia 1966 - ndc] deve fare al filosofo William James a questo proposito. Il Brentano scrive che si deve “distinguere tra l’attività che sente e ciò verso cui essa si dirige, quindi tra il sentire e il sentito” (“ed essi sono certamente diversi, come il mio attuale ricordarmi e l’evento che mi sta dinanzi come passato, o per usare un paragone ancora più drastico, come sono diversi il mio odio per il nemico e l’oggetto di quest’odio”); aggiunge poi l’osservazione che l’errore contro cui queste parole si rivolgono si vede “affiorare qua e là”. Dice più avanti: “Tra gli altri William James [William James (1842-1910), psicologo e filosofo americano; di lui si veda di Rudolf Steiner: “Die Rätsel der Philosophie”, 0.0. n. 18, Dornach 1968, a pagg. 552 e segg - ndc] l’ha fatto suo, e ha cercato di giustificarlo in un lungo discorso al congresso internazionale di psicologia, a Roma nel 1905. Poiché a me, quando guardo in una sala, appare insieme alla sala anche il mio vedere, poiché inoltre le immagini di fantasia degli oggetti sensibili si distinguono solo per grado dalle immagini obiettive degli stessi suscitate dai sensi, poiché infine i corpi sono da noi chiamati belli, ma la differenza tra bello e brutto sta in relazione con la differenza di emozioni, i fenomeni fisici e quelli psichici non dovrebbero quindi più essere considerati come due classi di fenomeni. Mi è difficile capire come l’oratore stesso non si sia accorto della debolezza di questo argomento. L’apparire insieme non significa l’apparire della medesima cosa, così come l’essere insieme non è essere la stessa cosa. E perciò Descartes poté consigliare, da principio almeno senza contraddizione, di negare che esista la sala che io vedo, e di attenersi solo all’esistere del mio vedere la sala, come a qualcosa di indubitabile. Ma se la prima argomentazione è debole, lo è ancor più la seconda; infatti che importanza avrebbe distinguere un fantasticare da un vedere solo per il grado di intensità, quando, se anche fossero di pari grado, la piena uguaglianza del fantasticare e del vedere, proprio secondo quanto detto, avrebbe solo il significato di un’uguaglianza con un fenomeno psichico? Nella terza argomentazione si parla di bellezza… È certo una logica strana quella che dal fatto che (il piacere della bellezza) sia qualcosa di psichico vuol dedurre che anche ciò al cui apparire è collegato debba essere qualcosa di psichico. Se questo fosse giusto, anche ogni dispiacere sarebbe identico a ciò per cui ci si dispiace, e ci si dovrebbe ben guardare dal pentirsi di un errore commesso, poiché nel pentimento stesso l’errore si ripeterebbe. In tale stato di cose non c’è dubbio che l’autorità del James, che purtroppo si associa tra gli psicologi tedeschi a quella di un Mach, indurrà molti a misconoscere l’evidente differenza” (cfr. Franz Brentano “Untersuchungen zur Sinnespsychologie”, Lipsia 1907, pag. 96 e segg.). In ogni caso questo “misconoscimento delle evidenti differenze” non è un fatto raro. Dipende dalla circostanza che la forza di rappresentazione può sviluppare l’attenzione necessaria solo per l’impressione sensibile, mentre il reale elemento animico, che si svolge accanto ad essa, non è presente alla coscienza in modo più forte di quanto si sperimenta nello stato di sonno. Si ha a che fare con due correnti di esperienze di cui una si coglie in stato di veglia, l’altra però, l’animica, parallela ed equivalente soltanto all’attenuata coscienza di sonno, è colta quindi con quasi nessuna attenzione. Non si può appunto assolutamente tralasciare di considerare che durante l’abituale stato di veglia la condizione animica del sonno non cessa semplicemente, ma anzi continua accanto alla veglia, e che il vero elemento animico entra nel campo della percezione solo quando l’uomo si sveglia non solo per il mondo dei sensi, come avviene nella coscienza abituale, ma anche per l’esistere dell’anima, come è il caso per la coscienza veggente. Ora non fa quasi differenza per l’anima se essa è negata in senso grossolanamente materiale, a causa del sonno che persiste durante la veglia, o se, perché non vista, è confusa col fisico, come nel caso del James; i risultati sono quasi gli stessi: entrambi conducono a una fatale miopia di vedute. Non fa meraviglia che così spesso l’elemento animico rimanga non percepito, se neppure un filosofo come W. James riesce a separarlo nel modo giusto dal fisico (in merito al risveglio delle facoltà animiche che non sono deste nella vita abituale si veda alla pag. 156 e segg. del mio libro “Vom Menschenrätsel”, Dornach 1984).

Con chi come W. James riesce così poco a distinguere l’elemento essenziale dell’anima dal contenuto che essa sperimenta attraverso i sensi, si può difficilmente parlare di quel campo della vita dell’anima all’interno del quale si dovrebbe osservare lo sviluppo degli organi spirituali, poiché tale sviluppo si svolge proprio là dove la sua attenzione non riesce a dirigersi. Porta dalla conoscenza razionale alla conoscenza veggente (un’ulteriore ragione di queste argomentazioni si trova nel primo ampliamento di questo scritto: “La giustificazione filosofica dell’antroposofia”).

Ora però, attraverso la capacità di percepire l’elemento essenziale dell’anima, non è stato ancora raggiunto niente più che la primissima condizione che rende possibile guidare lo sguardo spirituale là dove l’antroposofia cerca lo sviluppo degli organi animici. Ciò che si offre da principio a questo sguardo è infatti in relazione con ciò di cui l’antroposofia parla come di un essere animico dotato di organi spirituali, così come una cellula vivente indifferenziata sta a un essere vivente fornito di organi di senso. I singoli organi spirituali diventano però per l’anima suo possesso cosciente solo nella misura in cui essa stessa riesca a utilizzarli. Questi organi non sono qualcosa di statico; sono in continuo movimento. E quando non sono usati si può anche non essere coscienti della loro esistenza. Per essi quindi coincidono il percepire e l’essere usati. Come lo sviluppo di questi organi venga alla luce e con ciò anche la loro percepibilità, si trova illustrato nei miei scritti antroposofici. Voglio qui solo accennare a qualcosa in questa direzione.

Chi si dedica alla riflessione su esperienze generate da fenomeni sensibili, incontra dovunque domande alla cui risposta tale riflessione gli sembra a tutta prima inadeguata. A seguito di tale riflessione i rappresentanti dell’antropologia arrivano a fissare dei confini alla conoscenza. Basta ricordare come ne parla il Du Bois-Reymond [Emil Du Bois-Reymond (1815-1896), fisiologo. Il citato alla lettera è: «In merito agli enigmi del mondo fisico lo scienziato è da molto tempo abituato a pronunciare con virile rinuncia il suo “ignoramus”. Considerando il corso vittorioso della scienza, ha però in sé la muta consapevolezza che quel che ora non sa potrebbe saperlo in date circostanze, e forse in avvenire lo saprà. In merito però agli enigmi legati a materia e forza, per quanto vi si possa pensare, una volta per tutte deve decidersi a pronunciare un principio ben pesante: “ignorabimus”». In “Über die Grenzen des Naturerkennens”, conferenza tenuta il 14 agosto 1872 a Lipsia durante il Convegno di scienziati e medici tedeschi. La prima edizione è del 1872, Leipzig - ndc] nel suo discorso sui confini della conoscenza della natura: non è cioè possibile conoscere l’essenza della materia e neppure quella del più semplice fenomeno di coscienza. Ora davanti a tali punti della riflessione ci si può fermare e abbandonarsi all’opinione: qui si trovano veramente per l’uomo delle barriere insormontabili. Ed in questo modo si può essere tranquilli che l’uomo può raggiungere un sapere solo all’interno del campo delimitato da queste barriere, e possono andare oltre solo un intuire, un sentire, uno sperare, un desiderare coi quali una “scienza” non può aver niente a che fare. Oppure si può cominciare a questo punto a formulare ipotesi su un campo che si trova al di là del percepibile-sensibile. Ci si serve in questo caso dell’intelletto, credendo che esso possa estendere i propri giudizi a un campo di cui i sensi non percepiscono nulla. Procedendo così, ci si espone al pericolo che chi è incredulo a questo riguardo risponda: l’intelletto non ha alcuna giustificazione per giudicare su una realtà per la quale gli è sottratta la base delle percezioni sensibili. Solo queste conferiscono infatti ai suoi giudizi un contenuto. Senza tale contenuto i suoi concetti restano vuoti.

La scienza spirituale orientata antroposoficamente non si comporta né nell’uno né nell’altro di questi due modi, riguardo ai “confini della conoscenza”. Non nel secondo, perché deve stare con chi in qualche modo avverte che tutto il terreno del riflettere va perduto, se si lasciano le rappresentazioni ottenute mediante i sensi, volendole però usare al di là di questo campo.

Non nel primo modo, perché si accorge che ai cosiddetti confini del conoscere si può sperimentare un elemento animico che nulla c’entra con il contenuto di rappresentazione ricavato da percezione sensibile. Se l’anima ha presente solo questo contenuto, allora in buona coscienza deve dirsi: questo contenuto non può rivelare direttamente al conoscere nient’altro che un’imitazione di quanto sperimentato coi sensi. La cosa cambia se l’anima giunge a chiedersi: che cosa può sperimentare in se stessa, quando si riempie delle rappresentazioni, dalle quali è condotta agli abituali confini della conoscenza? Con un’adeguata riflessione può allora dirsi: con queste rappresentazioni non posso conoscere nulla, nel senso consueto; ma se mi rendo interiormente ben chiara questa impotenza del conoscere, mi accorgo di come queste

rappresentazioni operino in me stessa. In quanto rappresentazioni consuete di conoscenza, esse restano mute; ma proprio nella misura in cui il loro essere mute si comunica sempre più alla coscienza, acquistano una propria vita interiore che diventa tutt’uno con la vita dell’anima. E l’anima osserva allora come con questa esperienza essa si trovi in una condizione che si può all’incirca paragonare a quella di un essere cieco che anche non abbia ancora sperimentato alcuna particolare educazione del proprio senso del tatto. Un essere siffatto urterebbe in un primo tempo dappertutto. Sentirebbe la resistenza delle realtà esterne. E da questa sensazione generica potrebbe svilupparsi una vita interiore, riempita di una coscienza primitiva che non ha più solo la sensazione generica di urtare contro le cose, ma che differenzia questa sensazione in sé, e distingue la durezza dalla morbidezza, la levigatezza dalla ruvidità, e così via. In questo modo l’anima può sperimentare e differenziare in sé ciò che vive quando forma rappresentazioni ai confini della conoscenza. Impara a sperimentare che quei confini non rappresentano altro che ciò che sorge quando essa viene toccata animicamente dal mondo spirituale. L’accorgersi di quei confini diventa un’esperienza per l’anima che si può paragonare con l’esperienza del tatto nel campo sensibile (i confini della conoscenza, come qui intesi, non compaiono solo nella misura limitata in cui giungono a coscienza a qualcuno; risultano in grande misura lungo le vie che la riflessione interiore deve percorrere per arrivare ad un nesso con la vera realtà. In proposito si veda anche il secondo ampliamento di questo libro: “Il comparire dei confini della conoscenza”). In ciò che prima denominava confini della conoscenza essa vede d’ora in poi l’essere toccata animicamente-spiritualmente da un mondo spirituale. E dall’esperienza sulla quale ha riflettuto, che può avere con le diverse rappresentazioni al confine, la sensazione generica di un mondo spirituale le si differenzia in un molteplice percepire dello stesso. In questo modo diventa esperienza il grado per così dire più basso di percettibilità del mondo spirituale. Con ciò si è caratterizzato solo il primo aprirsi dell’anima al mondo spirituale. Ma si è anche mostrato che nelle esperienze spirituali a cui tende l’antroposofia da me intesa non si indicano generiche esperienze dell’anima, nebulose e sentimentali, ma qualcosa che è sviluppato in modo conforme a leggi in una reale esperienza interiore. Questo non può essere il luogo per mostrare come la prima percezione originaria dello spirito venga intensificata da attività ulteriori dell’anima, così che si possa parlare di un tastare animico-spirituale anche per tipi di percezione per così dire più alti. Riguardo alla descrizione di queste attività dell’anima si deve rimandare ai miei libri e ai miei saggi antroposofici. Qui volevo accennare solo all’essenziale, riguardo alla percezione spirituale di cui parla l’antroposofia.

Vorrei ancora render chiaro, attraverso un paragone, come nella ricerca spirituale antroposofica tutto l’atteggiamento dell’anima sia diverso da quello dell’antropologia. Ci si immagini una quantità di grani di frumento. Si possono utilizzare come alimento. Ma si possono anche mettere nella terra, così che si sviluppino da questi altre piante di frumento. Si possono trattenere nella coscienza rappresentazioni, ottenute da esperienze dei sensi, in modo da sperimentare in esse la riproduzione della realtà sensibile. E si possono anche sperimentare così da rendere attiva nell’anima la forza che esse esercitano nella stessa per mezzo di ciò che sono, indipendentemente dal fatto che esse riproducano un dato sensibile. Si può confrontare il primo tipo di effetto delle rappresentazioni nell’anima con ciò che deriva dai grani di frumento, quando essi siano assunti come alimento da un essere vivente. Il secondo col far nascere una nuova pianta di frumento da ogni chicco. Si può però pensare il paragone solo tenendo presente: dal chicco nasce una pianta simile a quella che l’ha preceduta; dalla rappresentazione attiva nell’anima nasce dentro l’anima una forza che serve alla costruzione degli organi spirituali. Si deve anche tener presente che la prima coscienza di tali forze interiori può essere accesa solo con rappresentazioni fortemente attive, come lo sono le caratterizzate rappresentazioni ai confini della conoscenza e che però, una volta che la coscienza per tali forze sia stata risvegliata, anche altre rappresentazioni le possono servire in misura certo minore per proseguire sulla via intrapresa.

Allo stesso tempo questo paragone indica qualcosa in merito all’essenza della vita di rappresentazione, quale risulta alla ricerca antroposofica. Così come il chicco elaborato come nutrimento è distolto dalla corrente di sviluppo della sua natura originaria e che porta alla formazione di una nuova pianta, allo stesso modo la rappresentazione è deviata dalla direzione di evoluzione della sua essenza se è impiegata dall’anima che pensa per la riproduzione di una percezione sensibile. L’evoluzione della rappresentazione, secondo la sua stessa essenza, è di operare come forza nell’evoluzione dell’anima. Come non si trovano le specifiche leggi di sviluppo della pianta esaminando i semi per stabilirne il valore nutritivo, altrettanto poco si trova l’essenza della rappresentazione esaminando fino a che punto essa faccia nascere come conoscenza la riproduzione della realtà da essa mediata. Con ciò non s’intende che quest’esame non possa essere fatto. Lo si può fare, come pure quello sul valore nutritivo dei semi delle piante. Ma come con quest’ultimo ci si chiarisce dell’altro dalle leggi di sviluppo della crescita delle piante, così con una teoria della conoscenza che indaghi le rappresentazioni nel loro valore conoscitivo come riproduzioni, si chiarisce qualcos’altro, ma non l’essenza della vita di rappresentazione. Tanto poco il chicco ha predisposto nel suo essere il diventare alimento, altrettanto poco sta nell’essenza della rappresentazione il fornire una conoscenza con carattere di riproduzione. Sì, si può dire che come l’impiego per l’alimentazione è qualcosa di totalmente estraneo al chicco, così per le rappresentazioni lo è il riprodurre in funzione della conoscenza. In verità l’anima coglie nelle rappresentazioni il proprio essere nel suo sviluppo. E solo attraverso l’attività propria dell’anima avviene che le rappresentazioni divengano mediatrici della conoscenza di una realtà (un’esauriente giustificazione di queste osservazioni si trova nell’ultimo capitolo della seconda parte del mio volume “Die Rätsel der Philosophie”: “Skizzenhaft dargestellter Ausblick auf eine Anthroposophie” (“Breve sguardo d’insieme di un’antroposofia”).

Al problema ora di come le rappresentazioni divengano mediatrici di tale conoscenza, l’osservazione antroposofica, che si serve di organi spirituali, deve rispondere diversamente da quanto fanno le teorie della conoscenza che rifiutano quest’osservazione. All’osservazione antroposofica risulta ciò che segue.

Per come sono le rappresentazioni secondo la loro natura originaria, esse costituiscono sì una parte della vita dell’anima, ma non possono divenire coscienti nell’anima se l’anima non usa coscientemente i suoi organi spirituali. Finché detti organi sono viventi secondo la loro natura restano nell’anima incoscienti. L’anima vive tramite loro, ma di loro non può sapere niente. Per diventare coscienti esperienze animiche nella coscienza abituale, devono smorzare la loro vita. Questo smorzare avviene con ogni percezione sensibile. Così, quando l’anima riceve un’impressione sensoria, si effettua un indebolimento della vita di rappresentazione, e l’anima sperimenta coscientemente la rappresentazione indebolita come mediatrice di una conoscenza della realtà esterna (si confronti in proposito il terzo ampliamento alla fine di questo scritto: “Dell’astrattezza dei concetti”). Tutte le rappresentazioni, che sono riferite dall’anima ad una realtà sensibile esterna, sono esperienze spirituali interiori la cui vita è stata smorzata. In tutto ciò che si pensa su un mondo sensibile esterno si ha a che fare con rappresentazioni morte. Ma la vita di rappresentazione non va perduta: conduce la sua esistenza nelle sfere non coscienti dell’anima, separata dal campo della coscienza. Lì viene ritrovata dagli organi spirituali. Come le rappresentazioni morte possono essere riferite dall’anima al mondo sensibile, così vanno riferite al mondo spirituale le rappresentazioni viventi, afferrate con gli organi spirituali.

Le rappresentazioni prima definite di confine sono quelle che per loro natura non si lasciano indebolire e quindi si oppongono ad un rapporto con la realtà sensibile. Proprio per questo divengono punti di partenza della percezione spirituale.

Nei miei scritti antroposofici ho chiamato rappresentazioni immaginative le rappresentazioni che sono colte dall’anima come viventi. Si disconosce ciò che qui si intende con “immaginativo” se lo si confonde con la forma espressiva dell’immagine da usarsi per indicare adeguatamente queste rappresentazioni. Si può cercare di spiegare nel modo seguente ciò che in realtà si intende con “immaginativo”. Quando qualcuno ha una percezione sensibile, nel momento in cui l’oggetto esterno lo impressiona, la percezione ha per lui una certa forza interiore. Quando si allontana dall’oggetto può allora richiamarlo alla memoria in una semplice rappresentazione interiore. Ma la rappresentazione ha ora una forza minore. Rispetto alla rappresentazione attiva in presenza dell’oggetto esterno è in certo modo sfumata. Quando l’uomo vuole ravvivare per la coscienza abituale rappresentazioni presenti nella sua anima in modo sfumato, le imbeve di echi dell’osservazione sensibile. Fa della rappresentazione un’immagine osservabile. Tali rappresentazioni in immagine non sono certamente altro che risultati della cooperazione del rappresentare e della vita dei sensi. Le rappresentazioni “immaginative” dell’antroposofia non nascono affatto in questo modo. L’anima, per riuscire a produrle, deve conoscere tanto bene il processo interiore del riunirsi della vita rappresentativa e dell’impressione sensoria, da potere tenere ben lontano l’infiltrarsi delle impressioni dei sensi, o meglio del loro riflesso nella vita di rappresentazione. Si riesce a tener lontano il riflesso dell’esperienza dei sensi solo quando si sia imparato a conoscere come il rappresentare ne venga afferrato. Solo allora si è nella condizione di collegare in modo vivente gli organi spirituali con l’essenza della rappresentazione, e quindi di ricevere le impressioni della realtà spirituale. Con ciò la vita di rappresentazione è compenetrata da un lato del tutto diverso che nel percepire dei sensi. Le esperienze che qui si hanno sono decisamente diverse da quelle sperimentabili con le percezioni dei sensi. Eppure vi è una possibilità di esprimersi su queste esperienze; può avvenire nel modo seguente.

Quando l’uomo percepisce il colore giallo, nella sua anima non ha solo l’esperienza degli occhi, ma insieme un’esperienza di sentimento. Questo può avere un’intensità diversa in uomini diversi, ma non mancherà mai del tutto. Goethe nel bel capitolo della sua teoria dei colori sull’“azione sensibile e morale dei colori” [cfr. di Goethe: “Il sistema della teoria dei colori” in R. Steiner, “Le opere scientifiche di Goethe”, XV, 3°, pag. 202, Ed. Bocca, Milano 1944 - ndc] descrive molto acutamente i sentimenti che accompagnano le esperienze del rosso, del giallo, del verde, e così via. Se l’anima percepisce qualcosa da una certa sfera dello spirito, può capitare che accompagni questa percezione spirituale con la stessa esperienza di sentimento che si presenta nella percezione sensibile del giallo. Si sa allora di avere questa o quell’esperienza spirituale. Naturalmente nella rappresentazione non si ha davanti a sé la stessa cosa che si ha nella percezione sensibile del colore giallo. Ma come effetto accompagnatore di sentimento si ha la stessa esperienza interiore che si ha quando il colore giallo sta davanti all’occhio. Si dice allora: si percepisce come “giallo” l’esperienza spirituale. Forse si potrebbe anche dire, per esprimersi più esattamente: si percepisce qualcosa che per l’anima è come “giallo”. Ma nessuno che abbia conosciuto dai testi antroposofici il processo che guida alla percezione spirituale dovrebbe aver bisogno di un discorso tanto complicato. Questi testi richiamano a sufficienza l’attenzione sul fatto che nella percezione spirituale non sta davanti agli organi spirituali un oggetto o un processo sensibile rarefatto, o tale che possa essere reso con rappresentazioni sensibilmente evidenti nel senso consueto (un ulteriore chiarimento in merito si trova nel quarto ampliamento di questo libro: “Un’importante caratteristica della percezione spirituale”).

*

Tramite i propri organi spirituali l’anima conosce l’essere spirituale dell’uomo, così come conosce il mondo spirituale che è fuori dell’uomo stesso. L’antroposofia vede questo essere spirituale, cittadino del mondo spirituale. Dall’osservazione di una parte del mondo spirituale essa giunge a farsi rappresentazioni dell’uomo che le rendono presente ciò che nel corpo si manifesta come uomo spirituale. Partendo dalla direzione opposta, l’antropologia giunge pure a rappresentazioni sull’essere umano. Quando l’antroposofia sviluppa i modi di osservazione caratterizzati nelle esposizioni precedenti, perviene a concezioni sull’essere spirituale dell’uomo, quale si manifesta nel mondo sensibile nel corpo. Il fiore di questa manifestazione è la coscienza; essa permette che le impressioni dei sensi continuino ad esistere nella vita di rappresentazione. L’antroposofia, procedendo dalle esperienze del mondo spirituale al di fuori dell’uomo sino all’uomo, trova alla fine quest’ultimo vivente nel corpo sensibile, che sviluppa in esso la coscienza della realtà sensibile. Ciò che dell’uomo trova per ultimo sul suo cammino è la vivente capacità di rappresentazione dell’anima che può esprimere in libere rappresentazioni immaginative. Poi, per così dire alla fine del suo cammino di ricerca spirituale, applicando lo sguardo più avanti può ancora vedere come la vita di rappresentazione nella sua essenza sia indebolita dalla percezione dei sensi. In questa vita di rappresentazione indebolita essa caratterizza l’uomo vivente nel mondo sensibile, illuminato dal lato spirituale, come capace di formarsi rappresentazioni. In questo modo giunge a una filosofia sull’uomo, ultimo risultato delle sue ricerche. Quel che sta prima sul suo cammino si trova solo nella sfera spirituale. Con ciò che risulta sul suo cammino spirituale giunge a una caratterizzazione dell’uomo vivente nel mondo sensibile.

L’antropologia indaga i regni del mondo sensibile. Avanzando sul suo cammino arriva pure sino all’uomo. Le si presenta come egli riassuma i fatti del mondo sensibile nella propria organizzazione corporea, così che da tale riassunto scaturisca la coscienza attraverso la quale la realtà esterna è richiamata in rappresentazioni. L’antropologo vede le rappresentazioni scaturire dall’organismo umano. Osservando tale processo deve in certo senso fermarsi. Con la semplice antropologia non può afferrare un nesso interno del rappresentare che segua una legge. Come l’antroposofia alla fine del suo cammino, che si svolge in esperienze spirituali, ancora considera l’essere spirituale dell’uomo nel suo manifestarsi attraverso le percezioni dei sensi, così l’antropologia, quando è alla fine del suo cammino che si svolge nella sfera sensibile, deve considerare il modo in cui l’uomo dei sensi, nel formare rappresentazioni, sia attivo nelle percezioni sensibili. E osservando questo, trova che tale attività è sostenuta non dalle leggi della vita del corpo, ma dalle leggi di pensiero della logica. Ma la logica non è un campo che possa essere battuto allo stesso modo degli altri campi dell’antropologia. Nel pensiero dominato dalla logica comandano leggi che non si possono più caratterizzare come quelle dell’organizzazione del corpo. Nella misura in cui l’uomo è attivo in esse, si manifesta in lui lo stesso essere che l’antroposofia incontra alla fine del proprio cammino. Solo che l’antropologo vede questo essere così come esso è illuminato dal lato sensibile. Vede le rappresentazioni indebolite e, ammettendo una logica, conviene anche che nelle rappresentazioni dominano leggi che provengono da un mondo che, pur fondendosi in un’unità con il sensibile, non coincide con esso. Nella vita di rappresentazione sostenuta dalla logica si manifesta all’antropologo l’uomo sensibile che si erge entro il mondo spirituale. L’antropologia giunge per questa via a una filosofia sull’uomo che è l’ultimo risultato delle sue ricerche. Ciò che nel suo cammino sta prima si trova completamente nel campo sensibile (anche queste argomentazioni sono illustrate verso una certa direzione nel primo ampliamento alla fine di questo libro: “La giustificazione filosofica dell’antroposofia”).

Se entrambe le vie sono percorse in modo rigoroso, si incontrano in un punto. L’antroposofia porta con sé in questo incontro l’immagine dell’uomo spirituale vivente e mostra come attraverso l’essere dei sensi egli sviluppi la coscienza che esiste tra nascita e morte, in quanto la vita della coscienza soprannaturale viene indebolita. L’antropologia mostra in questo incontro l’immagine dell’uomo sensibile che coglie se stesso nella coscienza e che, innalzandosi all’esistenza spirituale, vive però nell’essere che si trova oltre nascita e morte. In questo incontro è possibile una comprensione veramente fruttuosa tra antroposofia e antropologia. Esso deve avvenire, se entrambe si perfezionano nella filosofia dell’uomo. La filosofia dell’uomo risultante dall’antroposofia fornirà sì un’immagine dello stesso dipinta con tutt’altri mezzi di quella che, trattando dell’uomo, da’ la filosofia risultante dall’antropologia; ma gli osservatori di entrambe le immagini potranno trovare nelle loro rappresentazioni una corrispondenza, così come l’immagine negativa della lastra del fotografo, dopo adeguato trattamento, corrisponde al positivo.

Con quanto esposto pare di aver mostrato in che senso, in modo del tutto particolare dal punto di vista antroposofico, debba essere data una risposta positiva alla domanda accennata all’inizio di questo scritto, sulla possibilità di una discussione fruttuosa tra antropologia e antroposofia.